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“Meglio aiutare gli altri che pregare? Non c’entra: bisogna vivere ogni cosa con il suo amore”

Vatican Insider - pubblicato il 04/10/16

La preghiera è una fondamentale via di accesso alle sorgenti stesse della vita. Qualcuno può chiedersi che senso abbia pregare visto che Dio dovrebbe già sapere di cosa abbiamo bisogno. Gesù stesso risponde a questa domanda in molti modi. Per esempio quando afferma: «Ebbene io vi dico: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!» (Lc 11, 9-13).  

Dunque per riconoscere, accogliere, far crescere bene, i doni stessi che desideriamo è necessario lo Spirito. Potrebbe altrimenti accadere che il dono nemmeno lo riconosciamo. Senza lo Spirito nemmeno ci incamminiamo per le vie sulle quali potremo ricevere i doni richiesti. La preghiera, anche quando piccolissima, è dono immenso di Dio ed un segno che vuole portarmi in una vita nuova, a elargire tanti regali. Pregare vuol dire infatti entrare in contatto con Dio nello Spirito. Aprirsi al suo amore, alla fiducia in lui, ricevendo e chiedendogli sempre più lo Spirito. Gesù bussa al tempo opportuno al mio cuore con delicatezza. E con delicatezza entra sempre più se io glielo chiedo, se cerco di accoglierlo. Così quando qualcuno osserva che il tempo impiegato a pregare potrebbe venire usato meglio, per esempio facendo qualcosa per gli altri possiamo rispondere che ciò è vero se Dio non esiste. Ma se Dio esiste quanto diverso è vivere ogni cosa da soli o con il suo amore, la sua luce, il suo aiuto. È evidente che ciò può più pienamente e facilmente avvenire se cerchiamo di accogliere nella vita il dono dello Spirito ricevuto nella preghiera. Allora lo Spirito viene gradualmente sempre più, anche se talora mi posso sentire arido, in difficoltà, bisognoso di ben altre cose che di Dio. Altresì può accadere che proprio, per capriccio, non pregando, specie se per lunghi periodi, mi accorgo che sto perdendo quella carica positiva profonda della quale prima nemmeno mi avvedevo così tanto come ora che non la coltivo. 

Dunque chiedere il dono della preghiera già significa che Dio stesso mi ispira in tal senso, e allora mi vuole donare un regalo inestimabile perché attraverso di esso può arrivare ogni bene. Una volta un ragazzo, studente universitario, che veniva a confrontarsi con me sulla sua vita, sul suo cammino nella fede, mi chiese un appuntamento per parlare della preghiera perché avvertiva molta difficoltà a viverla. Gli proposi di venire l’indomani, dopo la messa feriale delle 8.30. Lui venne anche a quella celebrazione e così quando nel nostro incontro esordì osservando che si sentiva perso perché nella preghiera gli pareva di parlare da solo, si distraeva, gli sembrava di recitarla solo per abitudine, senza entusiasmo, io gli potei rispondere che Gesù stesso si era già messo all’opera. Infatti nel vangelo proclamato quel giorno si era letto: “Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore, e non ci indurre in tentazione»” (Lc 11, 1-4). Potevamo avere buona fiducia che Gesù stesso stava ispirando la sua ricerca e lo avrebbe aiutato a pregare. Si vedeva subito, da tutto ciò, che per entrare sempre più nella fede, nella preghiera, la prima cosa è, almeno da un certo punto del cammino personale, cercare gradualmente di lasciarsi portare da Cristo. Quando cerco di imparare gradualmente a camminare con Gesù è lui stesso che mi porta nella preghiera, nella carità, in ogni aspetto della vita quotidiana. Dunque, per esempio, è lui che prega in me, con me, per me e per tutti, con tutti, in tutti, coloro che lo seguono. 

Una bella immagine di questo ispirare di Cristo la nostra preghiera lo vediamo in Mt 5, 4 dove Gesù afferma che sono beati quelli che piangono perché saranno consolati. Il testo originale dice che «saranno chiamati vicino». Può esserci accaduto di andare davanti al tabernacolo o in camera nostra per piangere vicino a Dio dei nostri dolori. Ma Gesù ci fa comprendere che è Dio stesso che ci ha chiamato per stringerci al suo petto e consolarci, farci coraggio, mostrarci la via, portarci per mano. 

Talora possiamo sperimentare la sensazione di pregare senza venire ascoltati. Ma, come accennavo, in realtà è Dio stesso ad ispirare il senso profondo delle nostre preghiere. Dio è un Padre tenerissimo che è contento se noi siamo contenti, in pace, se ci sentiamo realizzati. Vuole donarci il suo amore ed ogni bene. Ma se chiediamo aiuto a Dio e poi non cerchiamo di lasciarci portare da lui, per quello che possiamo, gli rendiamo più complicato l’aiutarci. Infatti ogni cosa, anche la più materiale, che Dio ci dà è sempre un dono anche spirituale, perché la nostra gioia, il nostro benessere, autentico non può essere una cosa che Dio ci dà in mano ma una vita che riempie il nostro cuore. Non a caso nel Padre Nostro il pane quotidiano che Gesù ci insegna a chiedere nel testo originale è indicato da un termine, epiousion, che significa sia pane di ogni giorno che pane soprannaturale. Se Dio ci desse senza lo Spirito, senza l’amore, la cosa che tanto desideriamo prima o poi ci accorgeremmo che essa non ci dava quella soddisfazione, quella vita, che immaginavamo. Persino se ci apparisse Dio senza lo Spirito prima o poi, pressati dai soliti problemi, ci chiederemo se abbiamo sognato o vissuto un’allucinazione… È lo Spirito che ci porta in una vita nuova, che ci illumina, ci tocca, il cuore. Dunque che Dio ha ascoltato la nostra preghiera possiamo talora sperimentarlo prima di tutto da una nuova, anche piccola, apertura del cuore nel credere al suo amore, alla sua capacità di condurci verso la vita e nel seguirlo. Il sacerdote poi, seguendo tante persone, può vedere anche nelle loro vite come proprio aprendosi al bene, a Dio, cominciano a ricevere più facilmente anche tanti doni umani, materiali. Quante persone ho visto che attendevano il partner giusto da anni e lo hanno trovato anche presto avvicinandosi alla vita parrocchiale, per esempio entrando in un gruppo del vangelo. Quante volte ho visto genitori disposti a tirare la cinghia per mettere al mondo un altro figlio e avere, in concomitanza, aumenti di stipendio. 

Questa chiamata che possiamo ricevere da Dio ad abbandonarci gradualmente a lui la possiamo vedere in tanti particolari in diversi brani evangelici. In Mc 8, 22-26 vediamo che Dio può gradualmente condurci in una profonda preghiera nella quale ci mettiamo completamente nelle sue mani, permettendo, a lui così rispettoso e delicato, di operare più liberamente, profondamente, nella nostra vita. Portano dunque un cieco a Gesù, chiedendogli di toccarlo. La preghiera di imporre le mani può non essere una richiesta come un’altra, magari anche un po’ magica. Può significare dire che qualsiasi cosa Cristo farà o non farà cercheranno, con il suo aiuto, di accoglierla, di viverla. Così vediamo come diventare gradualmente disponibili a crescere nella fede è un atto di amore, di fiducia, molto grande. Certo come risposta ad un dono che non possiamo darci da soli. E Gesù, lasciato libero di agire, fa delle cose addirittura scandalose. Prende per mano il cieco e lo conduce, discretamente, fuori del villaggio. Già qui una fede che pretende di dire a Dio cosa deve fare potrebbe avere da contestare. Si chiede a Gesù di ridare la vista ad una persona certo anche per reinserirla più pienamente nella vita e lui la porta fuori del villaggio. Che senso ha? In realtà i motivi intuibili sono molti. Tra questi, gli stessi incredibili gesti che Cristo compie verso il cieco. Tali che persino le traduzioni sembrano decisamente edulcorarli. Infatti leggiamo che Gesù mise la sua saliva negli occhi del cieco. Il testo originale dice, se non erro, che Cristo sputò nei suoi occhi. E non può talora accadere che una persona chieda aiuto a Dio, anche luce, discernimento, in una situazione e le sembri di ricevere in tutta risposta magari altre prove, umiliazioni, etc.? L’esperienza della fede insegna che Dio sa quello che fa. Anzi la preghiera da poco vissuta può aiutare ad intuire che quella difficoltà non è casuale, è permessa, da Dio. Anche se non è mai lui a causare il male. La fede può dunque aiutare a credere che, nonostante le apparenze, lui di certo ha ascoltato. Qui le persone stesse hanno chiesto aiuto senza porre alcun paletto. Forse proprio per questo Gesù può compiere un’opera più profonda e anche più rapida. Certo sempre gesti che l’interessato può accogliere nella fede come gesti d’amore, in realtà delicati, a misura… Il gesto qui in questione facilmente significa una nuova creazione in Cristo stesso. Divenire ancora più partecipi della vita stessa di Gesù. Gesù gli impone anche le mani e gli chiede se vede qualcosa. Gesù ci guarisce, ci dona luce, vista, etc., spesso gradualmente. È una delicatissima apertura del nostro cuore che egli opera, sciogliendo fragili chiusure, paure, riempiendo vuoti. Non dobbiamo sempre vedere tutto subito, in certi casi non è il nostro vero bene. Gesù non ci chiede questo. L’importante è un cuore che cerchi di corrispondere con sincerità alla grazia ricevuta. 

Non è commovente e interessante osservare questo in un momento di possibili rinnovamenti nella Chiesa? Non colpisce questo cieco che si mette tutto, con i suoi cari, nelle mani di Gesù, pronto ad accettare, col suo aiuto, qualsiasi cosa da lui, fosse anche, come vediamo, qualcosa che all’inizio richiede molta umiltà, molta accettazione, molta disponibilità, molta fiducia? Queste persone nemmeno chiedono la guarigione ma solo che Gesù tocchi quell’uomo. Per questo Gesù, Dio e uomo, può toccarlo così profondamente. L’uomo, racconta il brano, volge allora in alto lo sguardo: non è più lui il centro del mondo. E diceva “L’imperfetto può indicare che cercava a fatica le parole, cercava di comprendere, di spiegarsi”. Ecco un altro effetto della grazia. Si aprono nuovi varchi nel cuore dell’uomo. Una nuova disponibilità a dialogare, a cercare insieme. Il cieco diceva di vedere gli uomini, perché vedeva come alberi che camminavano. La scena è vivissima. Ci sembra di vedere da dentro quella persona il suo graduale tornare a vedere. E l’intravedere persone concrete che si muovono vicino a lui. Segno che i suoi cari erano potuti andare con loro e cercavano di vedere, di partecipare, di ciò che stava accadendo. Che siano persone concrete e non alberi il cieco lo deduce proprio dal loro muoversi. Segno anche, forse, che i suoi cari erano però stati tenuti da Gesù ad una certa distanza. Gesù aveva cercato una profonda intimità con quel poveretto. È significativo che egli veda come degli alberi. L’albero, per esempio, da un lato può indicare la vita ed il muoversi la vita anche interiore delle persone. Ma l’albero è una cosa ed è un cammino nella luce il cogliere il cuore delle persone, il non vederle come oggetti. Gesù impone di nuovo le mani. La disponibilità di quelle persone è, con l’aiuto del Signore, sempre più profonda, perseverante. Senza scoraggiarsi, turbarsi, irritarsi, di quel miracolo a metà. Senza chiudersi e anche senza accontentarsi del risultato raggiunto. Senza ritenere, ora, di vedere quello che basta, senza che vi sia bisogno di altro. Dopo la nuova imposizione delle mani sugli occhi l’uomo può “guardare attraverso”. Non vede solo oggetti, apparenze esteriori. Non si ferma agli alberi che camminano. L’uomo è ristabilito, redento, nel suo cuore il sangue torna sempre più a scorrere senza ostacoli, occlusioni, incrostazioni. E vedeva dentro, dice il testo, ogni cosa chiaramente, anche di lontano. Quest’uomo non conosce più, riduttivamente, con una logica astratta, senza sfumature, come di meri oggetti. E nemmeno con uno spirito senza umanità concreta, un muoversi di alberi. La sua umanità è sempre più risanata, il suo cuore sempre più vede, ama, persone specifiche, umane, vive. Un discernimento sempre più equilibrato e profondo, spirituale e umano, in Cristo. 

A cosa servono gli schemi, tanto più con l’operare di Dio? Quell’uomo non vedeva e ora vede profondamente e lontano, almeno sotto certi aspetti. Perché proprio non vedendo ha chiesto, ha accettato, l’aiuto degli uomini, di chi gli voleva bene, e ha poi, con loro, anche grazie a loro, cercato, invocato, con tutto il cuore l’aiuto di Gesù. Gesù stesso gli dice poi di tornare, senza entrare nel villaggio, a casa sua. Di cominciare a maturare con calma questo dono, questa nuova vita, insieme ai suoi cari che l’hanno accompagnato. Anche perché ancora tanto avrà da scoprire, da vedere in modo rinnovato, perché Gesù non è un semplice profeta ma il Cristo (cfr Mc 8, 27-30). E anche se talora raggiunge il cuore attraverso un profeta chi sta venendo è molto di più, è lui, il Cristo (cfr Gv 1, 19-34). Un invito dunque a pregare, a mettersi completamente nelle mani di Dio, a lasciarsi aprire il cuore in modo nuovo perché Cristo stesso viene in modo sempre nuovo. E, stando con lui, ci sarà da trovare, da vivere, da contribuire, per tutti (cfr Gv 1,35-39). È veramente meraviglioso udire che Giovanni aveva ricevuto la profezia di uno sul quale lo Spirito il testo non dice, indicando comunque gradualità, “sarebbe disceso”, ma “avrebbe camminato giù” (cfr Gv 1, 32-33), dunque muovendo e mosso dai passi interiori di Gesù. Lo Spirito non è una nozione schematica, meccanica, scende gradualmente, con delicatezza, come una colomba, su Gesù e, in lui, su di noi, spesso specie se, tendenzialmente, cerchiamo sempre più di accoglierlo. 

Si possono forse cercare vie sensate che aiutino per esempio i pastori della Chiesa a stare concretamente a fianco della propria gente, condividendone da presso i dolori, le prove, le speranze, le scoperte, per dare la vita da vicino per la propria gente. Non può essere questo un modo, per i pastori, di far parlare sempre più il vangelo stesso, Parola del passato, del presente e, letta per grazia con sempre nuova attenzione, intuizione, del futuro, miniera inesauribile di scoperte dell’amore meraviglioso di Dio? Una Chiesa che cerca ogni via per essere vangelo, per sapere di vangelo. Dunque una Chiesa piccola e povera che cerca gradualmente sempre più, per grazia, di lasciarsi portare da Gesù. Non può essere anche questa della ricerca di una sempre più autentica vicinanza una via privilegiata perché tutti i nodi anche dottrinali, pastorali, etc., siano sempre più sciolti da Gesù stesso, dal vangelo stesso? 

“Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso». E Gesù: «Hai risposto bene; fa questo e vivrai» (Lc 10, 25-28). 

Il legista, dice il testo in greco, voleva mettere Gesù “alla prova da”, ossia dalla legge. E Gesù in risposta gli chiede cosa sta scritto nella legge, come egli comprende “su e giù”: ossia non “da”, deduttivamente, con una logica astratta, da tavolino, ma lasciando mettere sempre più insieme, nel suo cuore, Parola e vita concreta. Quell’uomo dà una risposta forse nel testo greco molto interessante: “Amerai il Signore Dio tuo, da tutto il tuo cuore, e in tutta la tua anima, e in tutta la tua forza, e in tutta la tua mente” (Lc 10, 27). Da tutto il cuore, dalla coscienza spirituale (anima) e psico (mente) fisica (forza), non a pezzetti riduttivi, astratti e spenti, semisvuotati, di umanità. Un cuore che cerca di lasciarsi portare sempre più profondamente dalla luce che scende delicatamente in lui. Un cuore che può gradualmente invocare sempre più profondamente la sempre nuova venuta del Signore. La parola plesion, poi, significa vicino, prossimo, presso, dappresso, plesiazo significa mi avvicino, mi accosto, sono presente, vicino, sono familiare, amico intimo di Oi plesiazontes tini, significa i seguaci, i discepoli, di qualcuno. 

Dio è amore, la logica dunque è in questo vivo mistero. Staccare, anche in campo cristiano, la logica dalla divinità e dall’umanità di Cristo che sempre più si dona a noi (Cfr. Gv 16, 13; Gv 14, 26) è una magari inconsapevole forma di ubris, di presunzione, di chi può finire così per ridurre Cristo ai propri ragionamenti. Magari pensando di salvare l’uomo grazie ad un’astratta ragione invece che col riferimento sempre più profondamente accolto appunto della viva divinità e umanità di Gesù. Ma non dimostra, nello Spirito, la storia stessa i pericoli di un’astratta ragione? Non mostra invece che la sequela di Cristo, Dio e uomo, non Dio e astratta ragione, conduce in modo tendenzialmente sempre più profondo la Chiesa verso il suo amore divino e umano, verso la verità tutta intera (Cfr. Gv 16, 13; Gv 14, 26)? Anche qui, dunque, si tratta, mi pare, del dono sempre più profondo di Cristo, Dio e uomo. Non sarà, per l’appunto, un pur apparentemente evidente ragionamento a liberare qualche guida, qualche intellettuale, dall’astratto razionalismo, mi pare, in cui può essere stato formato. Il brano di Mc 8, 22-30 può forse aiutare sempre più ognuno, almeno da un certo punto in poi di un eventuale, personalissimo, cammino. 

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