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“Le stragi in mare? Dimenticate perché interpellano l’Europa”

Vatican Insider - pubblicato il 28/09/16

Monsignor Giancarlo Perego, l’ultimo bilancio del naufragio di un barcone carico di profughi al largo delle coste egiziane, parla di 178 morti su circa 600 persone a bordo. Una strage passata quasi sotto silenzio. Siamo dunque a questo, al prevalere di quell’indifferenza dei media e dell’opinione pubblica denunciata già da papa Francesco?

«Sì, purtroppo intorno ai morti del Mediterraneo che ormai è diventato un cimitero come ha detto papa Francesco, sta scendendo l’oblio, la dimenticanza di una tragedia le cui dimensioni non fanno che aumentare; dalla tragedia del 3 ottobre 2013 a oggi sono oltre 11.500 le persone morte in mare e che sono state ritrovate. E quest’ultima strage è una delle più gravi insieme alle altre del 2013 e del 2015. Forse l’attenzione cala su simili episodi perché questi morti rappresentano un’ulteriore provocazione rivolta alla politica affinché vengano cercati canali legali d’ingresso per le persone in fuga da guerre, da persecuzioni, da disastri ambientali. Le vittime sono una forte provocazione per l’Europa che deve uscire dalla situazione di stallo in cui si trova a proposito della politica migratoria e dei richiedenti asilo. E allora questa sorta di dimenticanza, di trascuratezza di fronte a questi morti, dovrebbe far pensare come in democrazia il diritto d’asilo stia diventando uno dei diritti più negati a livello pratico». 

Ma i canali d’accesso legali, non gestiti dai trafficanti, non dovrebbero trovare un consenso politico ampio, proprio perché in tal modo si evita che il fenomeno migratorio resti fuori controllo?

«Certamente, creare canali legali di accesso significa in primo luogo garantire la sicurezza di chi è in fuga tutelando anche le persone che spesso sono vittime di violenze durante il viaggio. Al tempo stesso una tale scelta contribuirebbe a contrastare efficacemente i trafficanti di esseri umani; fra di loro infatti ci sono anche terroristi che ricavano grandi risorse proprio da questo traffico. In tal senso credo che la proposta di utilizzare, come è già previsto dalla legislazione, corridoi umanitari, attraverso un permesso umanitario verso diversi Paesi europei ma anche di altre parti del mondo, come sta facendo anche il Canada con 25 mila richieste, credo che sia una delle soluzioni più importanti e intelligenti sul piano sia della sicurezza che di quello della vita dei migranti. Forse l’Europa potrebbe ripartire da questa soluzione facendola diventare una delle forme concrete per gestire anche solo le quote di ricollocamento che fino ad ora sono fallite (i diversi Paesi dell’Unione dovevano suddividersi 160 mila migranti, ma la decisione non ha avuto seguito, ndr)». 

Secondo gli ultimi dati dell’Oim (organizzazione mondiale migrazioni) sono circa 300mila le persone che hanno cercato di raggiungere l’Europa dall’inizio dell’anno. Cosa ci dice questo numero?

«Sì, circa 170 mila in Grecia e 130mila in Italia. Siamo di fronte a un calo evidente rispetto ai flussi dello scorso anno». 

Eppure la percezione degli europei è quella di un fenomeno che inquieta, alcune regioni del continente hanno visto un aumento improvviso della popolazione…

«Diciamo anche che la percezione è alimentata da un’informazione che non evidenzia come la realtà dei numeri sia diversa. Se andiamo a vedere i numeri, infatti, abbiamo, nei casi migliori di accoglienza, 17 persone (migranti) ogni mille abitanti in Svezia, 10 persone ogni mille in Austria, 5 ogni mille in Germania, meno di 3 persone ogni mille abitanti in Italia e poi a seguire anche lo 0,2 per cento ogni mille persone in altri Paesi europei. Da questo punto di vista non possiamo dire che l’arrivo di tre persone nuove ogni mille abitanti – se ci fosse un’accoglienza diffusa – possa creare drammatiche situazioni. Il problema è appunto che oggi quest’accoglienza diffusa ancora non c’è». 

L’Italia è impegnata in prima fila nel salvataggio di vite umane, ma in generale nel nostro Paese come vanno le cose?

«Nel nostro Paese c’è un forte impegno nel salvataggio in mare e nell’accoglienza ai porti: in tre anni sono sbarcate 450mila persone, che sono state accolte. Ma se passiamo da una prima accoglienza al porto, al momento successivo, noi oggi abbiamo in totale 130mila persone accolte nelle diverse strutture. Se tutti gli ottomila comuni italiani fossero impegnati in un servizio alla persona rifugiata, non sarebbe un problema drammatico con le risorse messe a disposizione anche dall’Unione europea. Il fatto è che questa accoglienza diffusa nei nostri comuni, e in tutti i Paesi europei, non esiste. E quindi solo alcuni comuni si sono assunti la responsabilità di tali scelte. Allora uno dei punti importanti su cui insistere nella collaborazione fra Anci (l’associazione dei comuni italiani), ministero dell’Interno e governo è proprio questo: costruire una rete diffusa che oggi può servire questi rifugiati ma un domani ne potrà servire altri perché la situazione è comunque drammatica al di là del Mediterraneo, e non si concluderà nel giro di un paio d’anni. Serviranno altre politiche economiche e di cooperazione allo sviluppo per i prossimi vent’anni capaci di rispettare il diritto delle persone di restare nella propria terra. E’ quanto è avvenuto anche per l’Italia. Dal 1955 al 2005, infatti, con l’accordo Italia-Germania, 5 milioni di italiani sono andati in Germania, negli stessi anni poi, 4milioni e mezzo di italiani sono tornati perché erano mutate le condizioni economiche nel proprio Paese». 

Tuttavia l’Europa si sta riempiendo di fili spinati, muri, barriere…

«I drammatici fatti terroristici che sono avvenuti, un’informazione che esaspera alcuni casi d’incapacità di governare le situazioni in vari contesti europei, hanno di fatto creato una fobia. Alcuni Paesi hanno poi risposto con uno strumento inutile e assolutamente ingenuo qual è la costruzione di un muro, sapendo benissimo che nessun muro ha mai fermato i migranti. Né saranno questi nuovi muri a fermarli. Quindi mi sembrano risposte sbagliate a un problema serio che dovrebbe richiedere una maggiore possibilità di libera circolazione in un contesto europeo non solo per ragioni economiche come abbiamo fatto in questi anni favorendo la libera circolazione dei lavoratori in tutti questi Paesi, ma liberando la circolazione anche per persone che sono in fuga da Paesi in guerra e che hanno grosse comunità di riferimento in alcuni Paesi europei». 

Come stanno reagendo le chiese europee? Risentono del clima che si respira nei rispettivi Paesi?

«Qui a Madrid dove stiamo facendo l’incontro di tutti gli uffici Migrantes dell’Europa, (organizzato dal Ccee, il consiglio delle conferenze episcopali europee, ndr), mi pare di capire che ogni conferenza episcopale europea, con i propri organismi, Migrantes, Caritas, stia lavorando innanzitutto per un’informazione corretta sul fenomeno, e anche con esperienze nuove relative all’accoglienza. In Belgio ci si sta aprendo all’accoglienza nelle famiglie di ogni parrocchia, in Polonia si è proposto da parte dei vescovi il discorso dei corridoi umanitari, in Ungheria le comunità cristiane stanno accogliendo moltissimi di questi rifugiati. Non dimentichiamo che in Ungheria ci sono 10 migranti ogni mille persone, cioè quattro volte quanti ce ne sono in Italia. Quindi questa capacità c’è, con la difficoltà pure rappresentata da alcuni governi populisti o nazionalisti con i quali la Chiesa si deve confrontare e tante volte anche scontrare». 

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