di Emanuele Fant
Apro il giornale, mi incuriosisce una notizia. Valentino, nove anni, vedeva tutti i giorni Vasile chiedere l’elemosina di fronte al negozio dei suoi genitori. Decide di mettere insieme tutte le paghette, e regala 50 euro al mendicante. Racconta il gesto alla mamma, che lo punisce facendogli passare l’aspirapolvere in tutto il negozio: «Così capisci che fatica si fa a guadagnare». Vasile, in tempo breve, rintraccia la famiglia e restituisce la somma. Mamma si rende conto che ha un figlio speciale e lo scrive su Facebook. Alcuni giornali riprendono il fatto. Il sindaco premia il piccolo con una pergamena.
All’apparenza in questa storia non ci guadagna nessuno (i soldi sono tornati nel porcellino), ma a me ha lasciato in ricordo un punto interrogativo.
Chiudo il giornale. Mi alzo dalla poltrona, mi tocco le tasche, mi coglie un timore: dov’è il mio Valentino interiore? Anche io ce l’avevo, in qualche punto interiore. Forse me l’hanno rapito i senegalesi legandolo coi braccialettini; in piazza Duomo sono così numerosi che non ho trovato abbastanza sorrisi per tutti: ho dovuto imparare a tenere basso lo sguardo, fingendo costante ritardo per una riunione. Forse è imbarcato su un cargo con i peruviani e i loro cd di musica andina che in pianura non ha senso ascoltare. Possibile pure che sia rimasto amputato nel finestrino che serro se si avvicina lo zingaro con un finto difetto alla schiena (dovrei finanziare il suo imbroglio?). Magari è affogato nei fiumi di alcool che si scolano le ucraine quando muore l’anziano a cui dovevano badare, è un’abitudine che mi fa sospettare di loro.
Ho un elenco di motivi per tenermi strette le mie monetine. Diventando adulto, ogni slancio solidale si è incastrato nei tasti quadrati di un calcolatore. E allora come definire questa nostalgia, questa stima per un gesto infantile?
(Ho avuto una dritta: il mio Valentino interiore non è proprio morto, mi dicono che fa il mendicante in stazione e non aspetta un’offerta, ma che lo vada a trovare).