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“Andare verso l’umano è accettare di essere creature in cammino”

Vatican Insider - pubblicato il 20/09/16

Ho accennato in precedenti interventi a questo possibile passaggio verso l’umano semplice e in un graduale, personalissimo, cammino, sempre più profondo. Un entrare sempre nuovo nella vita reale, nel contatto con persone, situazioni, reali, piene di sfumature. Tutto ciò può sempre più profondamente rinnovare ogni aspetto della vita. Ho accennato per esempio a possibili forme sempre nuove di interazione, di contestualizzazione, tra quadri normativi e le scelte concrete dei diretti interessati. Per esempio un salvaguardare, un approfondire, alcuni criteri di fondo da rispettare ma anche l’attenzione a non schematizzare, appesantire, ingabbiare in lacci e lacciuoli. 

Mi domando per esempio se si possa cercare qualche pista innovativa di fronte al muro di burocrazia, di fiscalità col quale si scontra chi, anche in questa epoca così difficile, vuole creare lavoro. Si potrebbero per esempio stabilire delle regole il più possibile semplici, essenziali, da rispettare in quel dato ambito e poi invece di burocratizzare tutto lasciare il più possibile casomai ad eventuali controlli ex post, per esempio magari stimolati, se necessario, dalla concreta gente del luogo o comunque dagli utenti? Insomma, se in qualche modo possibile, una forma in varia, equilibrata, misura, anche di responsabilizzazione personale e comunitaria. D’altro canto come ben sappiamo dalla cronaca i controlli possono già oggi venire dopo la messa in opera. Si potrebbe profondamente, anche qui entro gli eventuali limiti consentiti per esempio in Europa, detassare chi crea nuovo lavoro in un tempo in cui non vi è lavoro? Specie, per esempio, in Italia, in cui vi è la tradizione della piccola e media impresa familiare, spesso così agile e creativa. A detta di molti economisti spesso ingiustamente, talora scientemente, penalizzata. Sono solo domande di un profano. Di alcuni orientamenti realizzabili, con più, sotto alcuni aspetti, certa efficacia su questa via dell’umano, anche con decisivi riflessi sul lavoro, sull’economia, ho trattato in precedenti interventi. 

Un aspetto di questo andare insieme verso l’umano e le sue mille sfumature concrete è quello di accettare, nella Chiesa, di essere creature umane in cammino. Non vi sono apparenze formali da difendere. Parlare con amore, senza tirare in ballo persone concrete, anche di possibili problematiche non significa denigrare il bene che invece già si vive ma cercare insieme di svilupparlo. Si può passare da un mettere la polvere sotto al tappeto per non scandalizzare qualcuno al cercare di costruire con impegno, accettando i limiti e gli errori dell’umano adoperarsi. Un eventuale formalismo delle apparenze può comportare tante conseguenze forse poco evangeliche. Un prete che abbia vissuto una fase difficile, una umana caduta-confusione, una donna, anche se venti, trenta, anni prima potrebbe magari talora in un eventuale formalismo venire automaticamente escluso dal diventare papa e magari anche santo. Potrebbe anche venire rinchiuso in schemi che con la sua vita reale non hanno nulla a che vedere. Mentre i vangeli stessi, gli Atti degli apostoli, parlano con semplicità anche dei limiti, degli errori, degli apostoli e di san Pietro, nè mostrano di dipendere in maniera eccessiva dalla preoccupazione delle chiacchiere. Certo è giusto che, per sicurezza, sia trascorso un lungo periodo. Ma com’è bello tornare all’umanità semplice. 

Nell’Antico e nel Nuovo Testamento vediamo che i profeti vivono proprio nell’esperienza della debolezza, anche della contraddizione, una tappa decisiva della loro vita. Nella quale sperimentano più chiaramente che senza Dio non possono nulla. San Paolo oltre all’esperienza della caduta (cfr At 9, 4) vive tra l’altro quella della cecità (cfr At 9, 8-9). Un cambiamento spirituale e umano così profondo può comportare passaggi difficili, particolari. Tante volte proprio persone che hanno molto sofferto, che hanno sperimentato fragilità, oscurità e forse anche il peccato possono rivelarsi persone profondamente umane, vicine. 

Si può osservare che questa rinnovata attenzione all’umano concreto nelle sue mille sfumature può fare emergere più chiaramente anche nella Chiesa tante possibili vie di ricerca, di sviluppo. Per esempio nelle città come è possibile evitare che il vescovo possa magari vivere in varia misura in un “palazzo” lontano dalla vita concreta dei fedeli, con minori possibilità, talora, di comprendere le situazioni reali delle persone nelle parrocchie, nei quartieri? Come è possibile passare a qualcosa di più profondo della visita pastorale che può, in certe cose, risultare talora non così efficace (certo vi è un dono spirituale) dato che è impossibile comprendere bene una situazione senza viverci dentro a lungo? Come è possibile dunque, tra l’altro, evitare di rimanere talora in varia misura impantanati in possibili chiacchiere e apparenze fasulle nelle quali possono sguazzare eventuali maneggioni? Come è possibile evitare, per esempio nelle metropoli, che il vescovo ausiliare possa venire spinto da tutto questo insieme (e altro) di cose a cercare di non creare rogne al titolare, anche magari in qualche caso pressato da una certa mentalità a non essere un battitore libero, che talvolta potrebbe in qualche misura giungere a voler dire di fatto “esegui e basta che i problemi sono già tanti”? Si può capire poco di persone, situazioni, si possono formare improbabili cliché, apparenze. Il “palazzo” può comportare tendenze burocratiche, schematiche, formaliste. Un vescovo in varia misura chiuso nel suo “palazzo” potrebbe per esempio spostare senza troppi problemi, per motivi schematici, burocratici, un prete che sta contribuendo ad animare profondamente e ampiamente un vasto territorio. Si può immaginare che la cosa sarebbe diversa se il vescovo fosse lui stesso in vivo contatto con quelle persone, in quel territorio. Oggi come oggi talora il vescovo gode, sotto certi possibili aspetti, della grazia dell’episcopato ma forse qualche autentico pastore avrebbe, sul piano umano, di gran lunga preferito restare in parrocchia. D’altro canto si cresce stando in mezzo alla gente e non nell’aria talora in varia misura rarefatta del “palazzo”. 

Come valutare dunque certe situazioni, certe problematiche? È bene, è possibile, e casomai dove, quando, in che misura, che vi sia un vescovo titolare, non un ausiliare, a guidare un piccolo insieme, una congrua area, di parrocchie, tale da non togliergli il contatto ravvicinato con le persone, da consentirgli l’entrare, il conoscere, concretamente, profondamente, le situazioni? Potrebbe questa rivelarsi un’altra profonda pista di eventuale, in qualche misura, deburocratizzazione, di più autentico spirito evangelico, per la Chiesa? Il possibile conseguente crescente numero di vescovi potrebbe comportare novità da valutare nella conduzione della Chiesa universale? Si potrebbe rivelare preferibile sviluppare preventivamente l’eventuale passaggio, per esempio, verso il cuore divino e umano di Cristo di cui tratto in questi interventi? Un vescovo a concreto contatto con la sua gente riceve tanti aiuti e li può ridonare alla propria diocesi e alla Chiesa universale. Diocesi più a misura d’uomo, familiari, potrebbero forse, per esempio, come parti di una stessa città, collaborare tra loro più profondamente, potendo magari evitare talora una certa dispersività della grande città. 

In questa serie di riflessioni-domande allo stato embrionale, dunque tutte più che mai, se del caso, da meditare, valutare, risistemare, molto più approfonditamente, comunitariamente, osservo che un vescovo in reale, ravvicinato, contatto con la sua gente può forse, talora, valorizzare naturalmente e anche, tendenzialmente, in modo più equilibrato, il laicato, la donna, la familiarità, anche ogni cittadino, comunità, anche di altra religione, anche non credente. Si può forse, talora, sviluppare meglio, almeno sotto certi possibili aspetti, la comunione, la sinodalita’, un ecumenismo concreto, vissuto, partecipato. Una familiarità, forse, che può rendere tendenzialmente, con equilibrio, ogni cosa, ogni aspetto, a suo modo familiare. Forse, ancora, tra l’altro, in molti modi, una via nuova rispetto alla possibile carenza di sacerdoti, rispetto alle diocesi estese e scarsamente popolate, definite dunque anche in base a tale esiguità. Una, forse, talora, rinnovata e anche più concreta attenzione ad ogni persona, situazione, ai bisogni, alle speranze. Anche si può qui magari trattare di un tassello, nell’insieme tra l’altro di proposte presentate in precedenti interventi, verso una maggiore partecipazione della comunità cristiana alla vita del territorio, della società in tanti suoi aspetti. Altra attitudine forse stimolata una possibile più profonda, concreta, attenzione alla varia profezia. Certo vanno sempre valutati anche i possibili pericoli, le possibili controindicazioni. Una Chiesa per quanto possibile a misura d’uomo potrebbe forse stimolare in vario modo ad aprire strade rinnovate a tutto campo. Come dicevo, se queste possibili proposte, che forse possono comunque stimolare riflessioni, sono in qualche misura, magari con evidenti accorgimenti, praticabili forse sarebbero accolte con gioia da molti, tra questi forse molti vescovi desiderosi di stare più vicini alle persone loro affidate. Una Chiesa piccola e povera, che si spoglia di ogni cosa superflua per essere vicina, per aiutare, in ogni discreto modo, ogni persona, per ricevere ogni persona e da ogni persona. Dunque anche se queste ipotesi dovessero venire serenamente valutate come del tutto impraticabili ed errate potrebbero forse ugualmente fornire qualche spunto di riflessione o almeno qualche possibile domanda: il “palazzo” può rischiare di togliere vita? Non è, talora, il “palazzo” ciò che le persone possono sentire lontano, ciò che talora può, in varia misura, far sentire meno ai pastori il cuore che batte delle persone? “Ed ecco Gesù venne loro incontro dicendo: «Salute a voi». Ed esse, avvicinatesi, gli presero i piedi e lo adorarono. Allora Gesù disse loro: «Non temete; andate ad annunziare ai miei fratelli che vadano in Galilea e là mi vedranno” (Mt 28, 9-10). Gesù continuamente, in mille modi, ci mette in guardia dalle mille forme di “palazzo”: “Ebbene, io vi dico: Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quando essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore (nel testo originale, in greco, tende, tabernacoli) eterne” (Lc 16, 9). 

Qualcuno potrà forse ritenere che se vi è qualche aspetto da considerare in queste riflessioni sull’episcopato esso può, al massimo, riguardare le grandi metropoli. In una possibile ricerca comune, tutta da approfondire, la mia tendenza almeno di partenza è che meno si ha consapevolezza del bisogno di accogliere (con rispetto, discrezione) con attenzione, il cuore delle persone meno si può talora sentire il problema delle dimensioni. Proprio meno si può avvertire il bisogno, a misura, della vicinanza concreta, dettagliata. Mi domando se una tra le possibili cause, talora, di quella che può apparire in qualche caso una profonda vitalità delle prime comunità cristiane non possa nascere da questo essere eventualmente a misura d’uomo. 

Umanizzare, rendere reali, concreti, a misura d’uomo, i rapporti, in tanti campi. Si possono sviluppare, con sana prudenza, equilibrio, profonde vie di maturazione, di partecipazione, per molti. Su questa scia, forse ricca di possibili scoperte, si può forse riconsiderare la possibilità, per esempio per il sacerdote diocesano, di andare in missione in altra diocesi. Si può trattare talora oggi, forse, di percorsi irti di ostacoli non sempre forse così condivisibili. Mentre forse non solo accogliere talora con maggiore disponibilità la richiesta dello stesso sacerdote ma anche stabilire la possibilità che il vescovo possa inviare qualcuno altrove potrebbe risultare forse una via di crescita fruttuosa. Magari lasciando libero il sacerdote di declinare l’invito. Forse una sincera buona volontà di andare ovunque voglia il Signore potrebbe costituire un profondo stimolo ad un’autentica, sempre, nuova, conversione. E una conversione non spiritualistica ma spirituale e umana, anche per la ricchezza dello scambio, del confronto, con altri popoli. In questa stessa direzione si può forse riflettere su una nuova missionarieta’ dei religiosi, delle famiglie, insomma della comunità tutta intera. Pensiamo, per esempio, tra l’altro, ad una certa possibile scristianizzazione dell’Europa. Una questione, forse, che non siamo ancora abituati, in qualche caso, a considerare più attentamente. Così come or ora, proprio sulla scia dell’umano (in Cristo), ci stiamo forse più profondamente aprendo a cogliere mille sfumature di amore nel senso più profondo umano, ma proprio perciò divino, che altre religioni, culture, mentalità, possono vivere con naturalezza o richiedere per essere incontrate mentre noi magari andiamo avanti con le nostre categorie forse in qualcosa un po’, per esempio, squadrate. 

L’individualizzazione e la massificazione delle persone sono talora aspetti caratteristici di una società che sta svuotando, tecnicizzando, l’umanità dell’uomo. La ricerca comune, con sana prudenza, equilibrio, dell’umano può costituire una via di rinnovamento fecondo, a tutto campo, con la partecipazione di tutti. Osservo qui che in una riunione di circa cinquemila uomini, senza contare donne e bambini, Gesù, prima di operare la moltiplicazione dei pani e dei pesci, dice ai discepoli di far sedere le persone per gruppi di cinquanta (cfr Lc 9, 14). Negli interventi precedenti si possono trovare molti possibili spunti sulla via del cuore non spiritualistico, razionalistico, ma divino e umano di Cristo. 

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