Guerre, bombardamenti, attentati, persecuzioni, espropri, torture. Sono le esperienze dei 25 rifugiati che hanno pranzato con il Papa e altri 500 leader religiosi, nel refettorio del convento di San Francesco ad Assisi, prima della cerimonia conclusiva del vertice internazionale «Sete di pace».
Una rifugiata, la siriana Tamar Mikali, giunta a Roma grazie ai corridoi umanitari promossi da comunità di Sant’Egidio, Chiesa valdese e Federazione delle Chiese evangeliche in Italia (Fcei), e che nel pomeriggio pronuncerà una testimonianza, ha pranzato direttamente al tavolo del Pontefice. Attorno a Francesco vi erano il patriarca ortodosso ecumenico Bartolomeo, il sacerdote albanese Ernest Troshani imprigionato nei gulag all’epoca del regime comunista. Tra gli altri erano seduti allo stesso tavolo il rabbino David Rosen e la presidente degli ebrei romani Ruth Dureghello, il primate anglicano Justin Welby e i protestanti Tveit e Junge, il fondatore della comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi, il patriarca Ignatius Aphrem II, patriarca siro-ortodosso di Antiochia, i cardinali Bassetti (Perugia) e Nicora (basiliche papali), i monsignori Becciu (sostituto della Segreteria di Stato) e Guixot (Dialogo interreligioso), il generale dei francescani conventuali Marco Tasca, il vescovo di Assisi Domenico Sorrentino, e ancora il sociologo Zygmunt Bauman. Nel tavolo accanto, gli altri 24 rifugiati, ospiti del Cara di Castelnuovo di Porto (10) e della Caritas di Assisi e della comunità di Sant’Egidio a Roma (10).
La Siria «è sempre nel mio cuore», racconta dopo il pranzo Kevork, siriano armeno, uno dei profughi di quest’ultimo gruppo, «a nessuno si può negare la cittadinanza del luogo dove è nato, vissuto, sposato, ha lavorato, ha trascorso la sua infanzia». Per noi siriani armeni, spiega, «questo è un secondo esodo dopo quello dalla Turchia nel 1915: come i miei genitori, mio padre, mio nonno, che hanno lasciato tutti i loro beni in Turchia, sono stati cacciati via e sono andati ad Aleppo, dove hanno ricostruito la loro vita, ora i nipoti e i figli hanno lasciato i loro beni, i loro averi: speriamo che questo sia l’ultimo esodo per noi».
Anu, giunto in Italia dal Mali in un barcone, racconta di aver parlato con il Papa della propria storia e della pace: l’incontro di Assisi «è una cosa meravigliosa per me perché per cercare la pace ho lasciato la mia terra». Paulina, nigeriana, di essere arrivata in Italia a luglio, dopo «molte torture», essere passata da Lampedusa, poi Ponte Galeria. «Poi siamo state quasi deportate al nostro paese, ma le persone di Sant’Egidio ci hanno salvato, ci hanno dato una casa». Corso di italiano, sartoria, dove la giovane donna ha imparato a cucire il vestito che indossa: «Oggi ho avuto la grande possibilità di incontrare il Papa, non è così facile per tutti: gli ho detto che vorrei battezzarmi, che ho fatto il vestito da sola, e lui mi ha dato speranza: sono molto contenta». Tra gli altri profughi ospiti a Roma di Sant’Egidio, palestinesi, eritrei, altri siriani, cristiani e musulmani, tra di essi una donna giunta a Roma col Papa dall’isola greca di Lesbo.
Al convento di San Francesco, per gli oltre 500 ospiti, menù rispettoso di ogni credenza religiosa: antipasto di mozzarella, bresaola rughetta e parmigiano, pasta al pomodoro e ravioli ricotta e spinaci, arrosto di vitello e tacchino con funghi e fagiolini, dolce alla frutta e crema. A inizio del pranzo, Marco Impagliazzo, presidente della comunità di Sant’Egidio, ha fatto un brindisi per i 25 anni di ministero di Bartolomeo e gli ha regalato una scultura di ulivo.