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Charles de Foucauld: un martirio senza eroismi

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Silvia Lucchetti - Aleteia - pubblicato il 17/09/16

“Il piccolo fratello universale” raccontato sotto la luce della ordinarietà del suo ministero

“Charles de Foucauld. Esploratore e profeta di fraternità universale” (San Paolo edizioni) di MichaelDavide Semeraro è un libro che nasce in occasione delle celebrazioni del centenario della morte di Charles de Foucauld, iniziate il 13 novembre 2015 a dieci anni dalla sua beatificazione sotto il pontificato di Papa Benedetto XVI.

Non si tratta di un lavoro biografico ma di un testo che evidenzia la grande novità apportata dal “piccolo fratello universale” per l’intera comunità ecclesiale, può essere sintetizzata dal ritratto che ne ha fatto il piccolo fratello Milad Aïssa nel 1960:

«Carlo de Foucauld era l’uomo adatto, per essere l’operaio di questo lavoro sovrumano in terre così aride: camminatore infaticabile, lavoratore accanito, innamorato del vento e della tempesta, sempre sveglio di spirito, sempre a osservare, a immaginare, a creare. Sceglieva sempre il difficile e faceva ogni cosa “con tutte le sue forze”. La sua preghiera sia di giorno che di notte porta il peso della greve ansia per la salvezza di tutti gli uomini, specialmente di coloro dei quali è il pastore solitario, e per i quali lavora, cammina, digiuna, conduce una vita austera, pronto in ogni istante a fare tutto ciò che può per la salvezza di quei poveri, perché sa che “il Padre non vuole che uno solo di questi piccoli si perda”, e che ciascuno di essi è stato acquistato col sangue di Gesù».

BEATO CARLO DI GESÙ

Fratel Charles de Foucauld, Beato Carlo di Gesù, monaco, mistico, precursore del dialogo con l’Islam, morì ucciso a Tamanrasset, nel deserto del Sahara il 1° dicembre 1916 all’età di 58 anni, per mano di una banda di predoni. Unico cristiano in terra islamica, Charles de Foucauld aveva scelto di abitare nel Sahara algerino a stretto contatto con la popolazione nomade dei Tuareg. Viveva in estrema povertà e semplicità in una tenda in cui per lunghe ore adorava l’Eucaristia amando Dio e gli uomini nel silenzio del deserto. Come il chicco di grano che morendo porta frutto, così la morte di Fratel Carlo ha dato vita a una famiglia religiosa sparsa in tutto il mondo che testimonia il dono fecondo del suo messaggio.

LA CONVERSIONE: UN PRIMA E UN DOPO

“La vita di fratel Carlo può essere divisa in due grandi tappe: i primi ventotto anni – nasce a Strasburgo il 15 settembre 1858 – e gli ultimi trenta che cominciano con la sua conversione ai piedi dell’abbé Huvelin, il 28 ottobre 1886, nella parrocchia parigina di S. Agostino(…)Con la stessa foga che lo aveva animato nella vita mondana, Charles de Foucauld, che diventerà fratel Carlo di Gesù, si mette a correre nelle vie del bene seguito e inseguito dal suo padre spirituale che fu capace di comprenderne l’unicità non incasellabile in strutture rigidamente codificate. (…)Sei anni in Trappa (1890-1896), un periodo di discernimento in cui vive all’ombra delle Clarisse di Nazareth e di Gerusalemme e quindici anni nel deserto dal 1° dicembre 1901 – giorno della sua prima Messa nel Sahara – al 1° dicembre 1916 – giorno in cui, come il suo Modello Unico, venne ucciso quasi senza volerlo e senza premeditazione, eppure in modo così preparato da sembrare quasi pianificato. Così scrive a Nazareth il 6 giugno 1897: «Pensa che devi morire martire, spogliato di tutto…»”

FRATEL CARLO BEATIFICATO COME SACERDOTE E NON COME MARTIRE

Scrive l’autore che c’è una parola tra le tante riflessioni di fratel Carlo davvero profetica e ricca di significato…

“«Vivere come se dovessi morire martire questa sera». Dalla Regola di san Benedetto, il monaco trappista frère Marie Alberic aveva appreso uno degli strumenti della vita spirituale che suona così: «Avere ogni giorno presente davanti agli occhi l’imminenza della morte». Sappiamo tutti che questa frase, annotata tra le righe dei suoi quaderni, si è realizzata nella vita di fratel Carlo quando, la sera del 1° dicembre 1916, in ginocchio, ha accolto una morte violenta nella solitudine del suo eremo. Un attimo preparato a lungo! Già il 6 giugno 1897, ancora a Nazareth scriveva: «Pensa che devi morire martire, spogliato di tutto, disteso a terra, nudo, irriconoscibile, coperto di sangue e di ferite, violentemente e dolorosamente ucciso… e desidera che questo accada oggi! Perché io ti faccia questa grazia infinita, sii fedele nel vegliare e nel portare la croce». Eppure, fratel Carlo non è stato beatificato come martire e neanche come monaco, ma semplicemente come “sacerdote”».

MARTIRE SÌ, MA COME?

«Tutti, soprattutto coloro che si fanno ispirare per il loro cammino di discepoli dall’esperienza profetica di fratel Carlo, lo consideriamo “martire”, eppure la Chiesa non lo ha riconosciuto come tale. Forse una parola dello stesso fratel Carlo può mediare la comprensione di quanto ha scelto la Chiesa e di quanto egli ha vissuto in profondità. Il 26 aprile 1900 scriveva: «Il sacerdote imita più perfettamente Nostro Signore, sommo sacerdote che ogni giorno offriva se stesso. Io devo collocare l’umiltà nel posto in cui l’ha collocata Nostro Signore, praticarla come l’ha praticata Lui, e perciò praticarla nel sacerdozio, secondo il suo esempio». Potremmo dire che il modo di vivere il “sacerdozio” da parte di fratel Carlo è ministeriale per quanto riguarda il servizio pastorale offerto agli altri ed è esistenziale per quanto riguarda la sua conformazione a Cristo come agnello che si lascia immolare e mangiare dagli altri».

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UN NUOVO MODELLO DI MARTIRIO

Fratel Carlo non è stato ucciso in odium fidei, il suo è un nuovo martirio caratterizzato dall’ordinarietà e straordinarietà di una vita spesa fino alla fine al proprio posto, alla sequela di Cristo.

«Nelle sue note spirituali, fratel Carlo sembra aver messo in conto non solo la possibilità di morire, ma di morire “martire” come tanti prima di lui, eppure in un atteggiamento diverso e sicuramente meno eroico e quasi banale. Morire “martire” per fratel Carlo (…) è stato accogliere la morte come l’ultimo sigillo di una vita condivisa, in tutto e fino all’ultimo, in un’ordinarietà di vita scelta e coltivata giorno dopo giorno, rifuggendo da ogni eroismo e da ogni sopravvalutazione di se stessi e della propria testimonianza. Nella morte di fratel Carlo, (…) se c’è il segno inconfondibile del dono totale di una vita fino alla morte, manca ogni elemento di eroismo e, soprattutto, di contrapposizione in particolare tra fedi ed etiche diverse. (…) in questo modo, è come se si aprisse la possibilità di un nuovo modello di essere “martiri” nel nostro tempo in cui l’elemento più forte non è quello dell’essere vittime, ma di essere testimoni capaci di seguire «l’Agnello dovunque va» (Ap 14,4), accettando di contestualizzarsi in ogni situazione particolare senza cedere a nessuna tentazione di straordinarietà. Questo significa accettare un coinvolgimento con la vita di tutti, quasi rinunciando al crisma di un eroismo così lontano dal modo di concepire la vita sia di fratel Carlo che di quanti nello stesso ambiente sono stati capaci di «perseverare sino alla fine» (Mt 24,13), in modo così normale da sembrare persino inutile(…)».

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