Che un dignitario porti in dono al Papa qualcosa che richiama la storia del cristianesimo nel proprio Paese è un fatto ricorrente nel protocollo delle visite in Vaticano. Se però a farlo è il rappresentante di un Paese della Penisola Arabica la cosa non può non assumere anche un significato speciale. Ed è esattamente quanto è successo ieri in Vaticano durante la visita dello sceicco Mohammed Bin Zayed, principe di Abu Dhabi e fratello dell’emiro degli Emirati Arabi Uniti.
Stando a quanto raccontato dallo sceicco nell’incontro con il Papa si è parlato del tema cruciale della lotta al fanatismo e della cultura della coesistenza tra cristiani e musulmani. Ma proprio in questo senso appare significativo uno dei doni che Mohammed Bin Zayed ha consegnato a papa Francesco: i giornali di Abu Dhabi riferiscono, infatti, che – insieme a un «tappeto della pace», realizzato da alcune donne afghane nell’ambito di un progetto di solidarietà sostenuto dal governo degli Emirati Arabi Uniti – il principe ha consegnato al Papa «un libro fotografico sugli scavi archeologici sull’isola di Sir Bani Yas». A prima vista può sembrare una notizia di poco conto, ma in realtà si tratta di un fatto importante. Quegli scavi hanno infatti riportato alla luce un antico monastero cristiano, costruito in epoca pre-islamica su una piccola isola a una manciata di chilometri dalla costa dell’Arabia. Un luogo che, tra l’altro – per via del suo importante patrimonio naturalistico – oggi sta diventando un’importante meta turistica negli Emirati (anche parecchie navi da crociera vi fanno tappa).
Il valore di un dono del genere diventa notevole se osservato nel contesto della Penisola Arabica e delle sue regole rigidissime nei confronti dei cristiani. Tanto per fare qualche raffronto: quando l’allora re dell’Arabia Saudita Abdullah fu ricevuto in Vaticano da Benedetto XVI nel 2007 portò in dono una spada d’oro ornata di pietre preziose, politicamente molto meno impegnativa; nel 2014, poi, il sovrano del Bahrein Hamad bin Issa Al Khalifa si presentò con il modellino della nuova cattedrale cristiana, in costruzione nel Paese. Ma si trattava comunque di una chiesa destinata alle centinaia di migliaia di lavoratori stranieri che abitano oggi nel Paese. In questo caso – invece – dagli Emirati Arabi Uniti (dove la nuova chiesa di San Paolo ad Abu Dhabi c’è già ed è stata inaugurata l’anno scorso dal cardinale Pietro Parolin) arriva un riconoscimento e una valorizzazione ufficiale anche della presenza cristiana nella storia pre-islamica della regione. Un omaggio coerente con il fatto che i resti del monastero di Sir Bani Yas – venuti alla luce nel 1992 – dal 2010 sono stati aperti alle visite dei turisti.
L’archeologo che ha condotto gli scavi, il professor Jospeh Elders, sostiene che i monaci nestoriani in questo luogo sarebbero rimasti fin verso l’anno 750 d.C. Un dettaglio che sta portando il governo degli Emirati Arabi Uniti a presentare Sir Bani Yas come «un esempio di spirito di tolleranza e coesistenza» presente nella regione proprio nei primi decenni della diffusione dell’Islam.
Che le cose stiano realmente così oppure no (in realtà sappiamo ancora pochissimo di questa storia) è un dato di fatto che il monastero nestoriano non era affatto l’unico nella Penisola Arabica: negli ultimi anni una serie di campagne di scavi hanno fatto riaffiorare diversi luoghi simili sulle costa araba del Golfo Persico. I più noti sono i resti della chiesa di Jubail, scoperti nel 1986, che secondo gli archeologi risalirebbero addirittura al IV secolo. Altri due complessi cristiani sono stati rinvenuti su due isole del Kuwait (Failaka e Akaz) e si parla anche di almeno un altro in Qatar. Sempre in Arabia Saudita, poi, ma nella regione meridionale al confine con lo Yemen, si trova Najran che si sa essere stato il più importante centro cristiano dell’Arabia in epoca pre-islamica.
Di tutti questi luoghi Sir Bani Yas è l’unico che sia stato recuperato e aperto al pubblico. Anche per questo, dunque, oggi le sue pietre antiche potrebbero tornare a essere un segno importante in una regione dove le rotte delle migrazioni hanno portato nuovamente centinaia di migliaia di lavoratori cristiani stranieri, in grande maggioranza asiatici e africani. Comunità che oggi in diversi Paesi arrivano a rappresentare anche più del 10 per cento della popolazione effettiva. Un segno e anche un’occasione preziosa per riscoprire una pagina di storia del cristianesimo del tutto dimenticata in Occidente.