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Padre Hamel e il “segreto” dei martiri cristiani

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Vatican Insider - pubblicato il 14/09/16
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«I martiri degli ultimi giorni» ha scritto San Cirillo di Gerusalemme «supereranno tutti i martiri». In quella schiera va contemplato anche il nome di padre Jacques Hamel, trucidato mentre celebrava la messa. «Ha dato la vita per noi, per non rinnegare Gesù» ha detto di lui Papa Francesco, celebrando a Santa Marta la Messa in suo suffragio. E ha aggiunto: «Ha dato la vita nello stesso sacrificio di Gesù sull’altare. E da lì ha accusato l’autore della persecuzione, vattene Satana!».

La vicenda dell’inerme e anziano prete francese trucidato davanti all’altare dell’eucaristia mostra nei suoi termini più elementari cosa è davvero il martirio cristiano. Davanti al suo sacrificio si dissolve anche la coltre di confusione e smemoratezza che a volte sembra velare anche quel tratto imparagonabile della vicenda cristiana nel mondo. Si dissipano equivoci alimentati non solo dalla propaganda jihadista – che esalta come “martiri” i kamikaze – ma anche da slogan e format rilanciati proprio dalla rete di apparati e opinion maker mobilitati a tempo pieno a difesa dei cristiani perseguitati. 

Nei giorni scorsi, un’occasione preziosa per guardare alla sorgente della testimonianza resa dai martiri contemporanei è giunta dal XXIII Convegno ecumenico di spiritualità ortodossa su “Martirio e comunione,” promosso dalla Comunità monastica di Bose (7/10 settembre). Lì, nei loro interventi, cristiani di diverse confessioni hanno disseminato criteri semplici e spunti oggettivi per riconoscere i lineamenti genetici del martirio vissuto lungo la storia da chi porta il nome di Cristo. E non farsi irretire dalle propagande che ne profanano il tesoro.
 
Martiri “nello” Spirito. Non per forza propria
«Contrariamente a quanto sembra essere la nostra comprensione comune» ha messo in chiaro iniziando il suo intervento l’archimandrita greco ortodosso John Panteleimon Manoussakis, docente di filosofia al College of the Holy Cross di Worcester «il “martire” primario e originario è Dio», che, con l’incarnazione di Cristo ha scelto di «rivelare se stesso di fronte al tribunale dell’umanità». L’auto-testimonianza di Dio è la sua «martyrìa», che «trova nella storia il suo culmine insuperabile nell’incarnazione di Gesù Cristo». E la stessa testimonianza di Cristo non si riduce «a una vuota tautologia auto-referenziale. «Se io testimonio di me stesso, la mia testimonianza (martyrìa) non è vera», ha ripetuto Manoussakis citando le parole di Gesù nel Vangelo di Giovanni, e aggiungendo che «infine, lo Spirito Santo rende testimonianza alla testimonianza di Cristo».
Questo dinamismo trinitario è la sorgente propria del martirio cristiano, e ne configura le fattezze inconfondibili: «Confessando che “Gesù è il Signore”» ha ripetuto Manoussakis «i discepoli diventano martiri di Cristo». Ma come scrive San Paolo, «“Nessuno può dire Gesù è il Signore se non nello Spirito”». E tanto più nel martirio, la confessione di fede, offerta con la certezza di sacrificare la propria vita, avviene non come eroica prestazione umana, ma solo in forza dello Spirito. «La testimonianza del martire» ha ripetuto Manoussakis «resta impossibile se non – e tutta la forza di quest’affermazione risiede in questo “se non” – nello Spirito Santo». Nell’esperienza cristiana «Nessuno può parlare, nessuno può confessare, nessuno può rendere testimonianza eccetto che nello Spirito Santo. In Dio». Per questo, ancor più a ragione, la confessione di fede martiriale non è possibile «finchè uno rimane in se stesso».

Di questa dinamica propria del martirio cristiano rende testimonianza Cristo stesso nel Vangelo, quando esorta i discepoli a non preoccuparsi di cosa dire quando saranno consegnati ai tribunali «per causa mia», perché «vi sarà suggerito in quel momento: infatti non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi» (Mt 10, 19-20). Per questo – ha notato il professore di Worcester  «I nostri martirologi sono pieni dei racconti di martiri che sono andati lietamente verso la morte e hanno sofferto le più terribili torture come se fossero «assenti dalla propria carne». Perché il martirio non era offerto «nella loro stessa persona a loro stesso nome». Con loro sacrificio, i martiri non testimoniano di se stessi. E «chiunque muore per le proprie convinzioni politiche o filosofiche» ha ripetuto Manoussakis, citando l’esempio di Socrate «non è martire, perché muore offrendo testimonianza di se stesso»
 

La contraffazione “narcisista” del martirio
Il martirio cristiano – ha ribadito nel suo intervento Il professore greco Athanasios Papathanassiou, caporedattore della rivista teologica Sinaxi – non ha il suo tratto distintivo «nella capacità di resistenza. Anche un ateo può sopportare indicibili tormenti senza recedere. La differenza non consiste neanche nel fatto di essere votati a un ideale. Migliaia di uomini muoiono per le loro idee, religiose e non». L’ostinazione eroica, «o anche l’odio eroico, possono dotare l’essere umano di una forza incredibile. Addirittura di una furia di auto-eliminazione». La natura propria del martirio cristiano consiste invece nel suo essere un «atto d’amore sacrificale», suscitato nel martire dall’opera dello Spirito, che diventa per grazia partecipazione al sacrificio di Cristo. Per questo – ha sottolineato Papathanassiou – «si tratta del vero e autentico amore regale, non del misero attaccamento ai “nostri”, che ha come complemento indispensabile l’odio verso gli altri». E se il contrario del martirio è l’apostasia, il professore greco ha voluto indicare uno snaturamento della dinamica martiriale che è da considerarsi «forse più grave dell’apostasia»: il caso in cui «il martirio si realizza in maniera narcisistica, e invece di essere un evento di amore sacrificale, diventa autoreferenziale».

Il cristiano narcisista – ha notato Papathanassiou – «ovviamente parla anche di Dio. In realtà però sente Dio come un’eco della propria esistenza». Il martire narcisista snatura il martirio in una «impresa di autogiustificazione». E per lui è scontato «che Dio sottoscriva l’impresa», e non attende da Dio nessuna risposta alla sua offerta di sacrificio. Per questo, anche il riferimento verbale a Cristo «non rende automaticamente cristiano un martirio». E tutta «la letteratura cristiana ripete sempre la dura ma salutare affermazione che anche il martirio cristiano più sublime può essere spazzatura, se non ha radice nell’amore».
Nel corso del convegno, sono stati evocati diversi esempi concreti di “martirio narcisista”: Aristotle Papanikolaou, fondatore e Senior Fellow al Fordham’s Orthodox Christian Studies Center,ha accennato ai cristiani dei primi secoli che «per un falso concetto di testimonianza e imitazione di Cristo andavano o desideravano andare incontro alla morte volontaria in un contesto in cui non vi era alcun rischio per la loro confessione di fede». Mentre John Stroyan, Vescovo anglicano di Worwick, ha ricordato la «competizione nel martirio» tra le sette dei donatisti e dei marcioniti, «in cui spesso il numero dei martiri veniva messo in correlazione con le verità delle proprie convinzioni»: «sostengono di avere un gran numero di martiri in Cristo», scriveva Eusebio di Cesarea riguardo ai marcioniti, «ma poi non rconoscono neppure Cristo stesso secondo verità».
 

L’amore “impossibile” ai persecutori
Il martire – ha detto a Bose ancora Stroyan, riprendendo immagini del poeta Thomas Eliot –  è «uno nel quale vive Cristo». Uno «che ha perduto la sua volontà nella volontà di Dio, e che non desidera più nulla per se stesso, neppure la gloria del martirio». Questo connota il martirio cristiano con un tratto proprio e ineluttabile, che non può essere “riprodotto” da nessuna abnegazione religiosa: «Il martire cristiano» ha rimarcato nel suo intervento Athanasios Papathanasiou «è mosso da un amore quasi insostenibile per tutti e, soprattutto, per le prime vittime dell’odio: i persecutori». Stroyan ha citato il protomartire Stefano, che mentre lo lapidano chiede al Signore di «non imputar loro questo peccato»; San Silvano del Monte Athos, che descrive «l’amore dei tuoi nemici come l’unico vero criterio di ortodossia»; e anche una delle “preghiere lungo il lago” di San Nikolaj Velimirovi? («Benedici i miei nemici, o Signore. E anch’io li benedico e non li maledico. I miei nemici mi hanno guidato tra le tue braccia più di quanto abbiano fatto i miei amici»).
Agli antipodi della dinamica del martirio – ha invece sottolineato del suo intervento Aristotle Papanikolaou – ci sono tutte le contraffazioni che pongono le sofferenze dei battezzati  sotto lo stigma della paura, della rivalsa e dell’auto-affermazione verso qualsiasi nemico: «È questa paura» ha suggerito Papanikolaou«che ha condotto dei cristiani ad adottare una retorica di demonizzazione contro quelle che vengono percepite come minacce per i cristiani; è la paura che ha condotto dei cristiani ortodossi a parlare di “guerra santa” nel conflitto siriano, ciò che non ha assolutamente alcun precedente nella tradizione ortodossa, poiché l’espressione hieros polemos non esiste nella letteratura patristica, o ha condotto dei cristiani ortodossi a negare il battesimo a bambini nati da madri surrogate, a meno che le loro madri biologiche non si fossero pentite, quando in realtà la Chiesa non ha mai negato il battesimo ai bambini per nessun motivo».
 

Nessun risentimento per chi cade
La carne dei martiri – dice Sant’Ignazio di Antiochia – è come «frumento macinato dai denti delle fiere» per diventare alla fine «pane puro», offerto per la salvezza di tutti. La partecipazione dei martiri alla passione di Cristo – hanno ripetuto diversi interventi del convegno di Bose – rende il loro sacrificio «materia eucaristica», che si offre per la salvezza di tutti, e riconosce in ogni essere umano – secondo la frase memorabile del monaco martire  Christian de Chergé, Priore del Monastero di Tibhirine – «un fratello o una sorella in umanità», qualcuno per cui Cristo è morto. Per questo è geneticamente estraneo alla dinamica propria del martirio anche ogni accenno di supponenza e di disprezzo verso chi fugge o si mostra debole davanti ai persecutori. «Durante le grandi persecuzioni» ha ricordato ancora a Bose Athanasios N. Papathanasiou «i confessori acquisirono una autorità enorme nella Chiesa. Al contrario, per quanti avevano ceduto, si discuteva persino se potessero essere di nuovo ammessi nella Chiesa. San Cipriano li ammise vedendo nel loro caso non soltanto debolezza, ma anche degli insoliti sentieri d’amore. Ci sono alcuni- diceva San Cipriano – che hanno sacrificato agli idoli durante le persecuzioni, ma l’hanno fatto per difendere la vita e la fede degli altri, come ad esempio dei membri della loro famiglia. Queste persone sono incorse nella caduta per il bene degli altri. Cipriano non esitò a dire che anche questo comportamento era una via di salvezza». 

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