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L’India tra Madre Teresa e i martiri dell’Orissa

Vatican Insider - pubblicato il 29/08/16

Le premesse ci sono tutte e anche il cardinale Oswald Gracias, presidente della Conferenza episcopale, ha auspicato che i 101 cristiani uccisi «in odium fidei» nello stato indiano di Orissa, nell’ondata di violenza scatenata 2008 da militanti estremisti indù, siano riconosciuti come martiri. 

Mentre si avvicina la canonizzazione di Madre Teresa di Calcutta, che sarà proclamata santa in Vaticano il 4 settembre, e il governo indiano del premier Narendra Modi ha annunciato l’invio di una delegazione di alto profilo (ma senza di lui), un altro episodio tiene banco nella Chiesa indiana e tocca i delicati rapporti con l’esecutivo di matrice nazionalista attualmente alla guida della democrazia più grande del mondo. 

Ed è un episodio doloroso, che narra di sangue, violenza, stupri, abusi, distruzioni, sfollamento: la violenza gratuita su civili indifesi che causò, oltre alle 101 vittime, la distruzione scientificamente orchestrata di 8.500 case e 395 chiese, mentre 56mila sfollati cristiani, cacciati per sempre dai loro villaggi, persero case, proprietà e ogni mezzo di sostentamento.  

A otto anni da quella autentica pulizia etnica che ha segnato per sempre la vita della comunità cattolica nel paese (si tratta del più feroce episodio di violenza di massa sui cristiani), la Chiesa nello stato dell’India centrorientale celebra ogni anno il 30 agosto la sua «Giornata dei martiri». E attende che sia l’intera nazione, a partire dalla Conferenza episcopale, a riconoscere questa istanza, facendosi così promotrice di un vero e proprio processo di canonizzazione. 

Molto attivo su questo fronte è il vescovo John Barwa, di Cuttack-Bhubaneswar, presidente della conferenza regionale dei vescovi dell’Orissa, che hanno scelto per celebrare i martiri il giorno successivo del martirio di san Giovanni Battista. Decisione, questa, «adottata per onorare e rispettare il sacrificio di quanti hanno perso la vita durante i massacri anticristiani del 2008 nel distretto di Kandhamal», ha spiegato Barwa all’agenzia vaticana Fides, ricordando di averne parlato all’assemblea plenaria dei vescovi indiani, svoltasi a Bangalore nella primavera scorsa.  

Intanto la Chiesa locale ha già incaricato uno speciale team di preti e ricercatori per documentare gli incidenti che hanno causato la morte dei 101 cristiani in Orissa, preparandosi, in tal modo, ad avviare la fase diocesana del processo per dichiarare il martirio. 

La questione, però, non si dipana solo sul piano della fede, ma continua ad avere risvolti umani e legali: la comunità continua a domandare piena giustizia e risarcimenti adeguati per quanti sono scampati all’ondata di violenza.  

Nella battaglia legale avviata, i cristiani hanno da poco conseguito un verdetto favorevole: accogliendo un ricorso presentato dall’allora arcivescovo Raphael Cheenath, scomparso proprio pochi giorni fa, la Corte Suprema dell’India, ritenendo i risarcimenti corrisposti finora «inadeguati», ha ordinato al governo dell’Orissa di disporre un compenso supplementare per le famiglie cristiane. Il tribunale ha inoltre disposto il riesame di 315 casi di violenza, tutti casi segnalati alla polizia ma non adeguatamente indagati dalla polizia.  

Un primo passo che, pur dopo otto anni, impegna il governo dello stato a garantire che gli autori di quei crimini non restino impuniti e fa sì che la violenza di Kandhamal non cada nel dimenticatoio. 

Supportando, per tali motivi, la necessità di una «Giornata della memoria», il settimanale di Delhi «Indian currents» guidato dal frate cappuccino Suresh Mathew, dedica uno speciale numero monografico alla vicenda dei martiri dell’Orissa, parlando di «parodia della giustizia». 

Da un lato il settimanale ricorda che quasi un terzo delle 827 denunce presentate dai cristiani sono state archiviate perché la polizia non è riuscita a rintracciare i colpevoli. E sui 362 procedimenti avviati, solo 78 sono finiti in tribunale. In secondo luogo, la maggior parte dei casi davanti ai giudici sono decaduti perché i testimoni oculari sono stati minacciati e il governo «ha fallito nel suo dovere basilare di proteggere i testimoni dei crimini più terribili».  

Il governo dell’Orissa, inoltre, in otto anni non ha compiuto alcun passo per riportare gli sfollati nelle loro case, avallando e perpetrando lo stato di fatto di una occupazione illegale e violenta di proprietà altrui che non sembra voler mettere in discussione. 

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