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“Misericordia e diplomazia creativa nel mondo in guerra”

Vatican Insider - pubblicato il 27/08/16

«Di fronte alla violenza, all’esclusione, al fatto bellico come unica risposta ai problemi di coesistenza, la diplomazia sembra aver dimenticato la sua natura». Serve «un cambio di paradigma che impone di non limitare l’attenzione a chi combatte, ma alle vittime della guerra che non possono restare un numero computato al termine o alla sospensione dell’uso delle armi». Lo ha detto il Segretario di Stato Pietro Parolin intervenendo nell’ex chiesa convento di San Francesco a Pordenone a un incontro promosso dalla Libreria Editrice Vaticana. Il cardinale ha tenuto una «lectio magistralis» intitolata: «L’impegno diplomatico come esercizio di giustizia e misericordia». 

Parolin ha spiegato, con le parole di Papa Francesco, come Dio vada «oltre la giustizia con la misericordia e il perdono». Dio «non rifiuta la giustizia. Egli la ingloba e supera in un evento superiore dove si sperimenta l’amore che è a fondamento di una vera giustizia». Il Segretario di Stato ha ricordato che la diplomazia pontificia, con le sue 179 rappresentanze presso paesi di ogni cultura e religione, è «al servizio della famiglia umana, con un atteggiamento dettato non solo da motivi formali, ma dalla piena coscienza di poter concorrere a un futuro di stabilità e sicurezza per i popoli e le nazioni, salvaguardando la loro storia e le loro identità». 

Il primo collaboratore di Francesco ha quindi notato come «di fronte alla violenza, al diniego di giustizia, all’esclusione, al fatto bellico come unica risposta ai problemi di coesistenza», la diplomazia sembra oggi «aver dimenticato la sua natura di risorsa capace di colmare la faglia di rottura dei rapporti e della convivenza nella comunità delle nazioni. La si vede spesso solo rincorrere i fatti, seguire l’alternarsi tra conflitto e soluzione pacifica di controversie, ma senza quella forza preventiva capace di arginare il ricorso alle armi tra gli Stati o nei conflitti interni altrettanto sanguinosi». Con realismo il Segretario di Stato ha osservato che «oggi le guerre sono frutto di rapporti di forza prolungati, senza un preciso inizio e una fine certa. Un aspetto che impone alla diplomazia prima ancora di formulare una proposta risolutiva, di evitare che si blocchino o si scartino i mezzi pacifici». 

Per Parolin la situazione attuale «domanda alla diplomazia di assumere connotazioni sempre più innovative, capaci di andare oltre la normalità o la semplice ripetizione di cliché tradizionali o anche di ricorrere a formule preordinate sulla cui efficacia la pratica internazionale pone non pochi dubbi di validità». Serve quell’«audacia creativa» della quale ha parlato Papa Bergoglio nel discorso al corpo diplomatico del gennaio 2016. Lo strumento diplomatico, ha aggiunto il cardinale, «è chiamato a ritrovare la sua essenza di “arte del possibile”. La diplomazia non può più essere l’espediente per separare idee e posizioni contrapposte, o per fermare le guerre in atto, magari con lunghe tregue armate, ma deve porsi come strumento di quella che si potrebbe definire come “coesione preventiva” tra le parti in lite». 

Il valore della diplomazia, «tradizionalmente collegato alle intenzioni di fare la guerra e al suo svolgersi, nel mondo di oggi va riportato — e quindi anche testato per coglierne la validità — piuttosto al post-conflitto. Questa fase di transizione, infatti – ha affermato Parolin – in assenza di apporti costruttivi rischia di trasformarsi in un conflitto occulto in cui ogni parte vuole legittimare la propria volontà, rispondere alle divergenze ideologiche, alle esclusioni o alle pressioni subite in passato, come pure vuole delineare un proprio esclusivo, e spesso egoistico, interesse. Di qui la necessità dell’azione diplomatica». 

Dopo aver citato come esempio l’impegno personale del Papa per la normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Cuba e Stati Uniti, un gesto che non ha inteso «riscrivere la storia», ma «andare oltre, avendo piena conoscenza e coscienza delle difficoltà e dei tempi necessari» dando «continuità e stabilità al dialogo e al reciproco ascolto», il Segretario di Stato ha spiegato che oggi, «di fronte ai conflitti armati e al momento della loro conclusione o almeno sospensione, la diplomazia non deve solo analizzare i contesti, ma anzitutto cogliere i cambiamenti nell’applicazione delle regole».  

«Questo – ha aggiunto – per essere capace di operare con tutti i mezzi possibili, senza porsi criteri che possano escludere una o più parti, rischiando di compromettere in partenza ogni soluzione». Ciò che viene chiesto alla diplomazia oggi, «è in sostanza un cambio di paradigma che impone di non limitare l’attenzione a chi combatte (eserciti regolari, combattenti più o meno legittimati), ma alle vittime della guerra che non possono restare un numero computato al termine o alla sospensione dell’uso delle armi». 

Una diplomazia che «voglia essere concreta – ha detto ancora Parolin – valuta l’elemento geopolitico, i cambiamenti, il dinamismo dei fatti e degli atti posti in essere, senza dimenticare la dimensione sociale, culturale e religiosa. Questa capacità di lettura aperta, può essere il veicolo per salvaguardare le diverse identità facendo in modo che le stesse non diventino un’arma (quante guerre si sono combattute e combattono in nome dell’identità!), ma strumento attraverso cui scoprire le origini, anche antiche, di certe situazioni che incrinano rapporti tra due o più Paesi e giungono finanche a destabilizzare l’ordine internazionale». 

Ricordando le sue visite nelle aree martoriate da guerre o che vivono un precario cessate il fuoco, il cardinale ha ricordato come nelle fasi di transizione che segnano il post-conflitto, la diplomazia sia chiamata a «un’azione di riconciliazione partendo dal basso, a livello locale, cercando di superare i differenti livelli di ostacolo».  

L’obiettivo è di intervenire, ha aggiunto, «in quello “spazio grigio” in cui, oltre a divergenze sedimentate e a interessi nuovi, convergono carenze nelle decisioni politiche, ambiguità di gestione e di amministrazione, come pure voluti livelli di incongruenza tra le parole e le azioni, fino a limiti posti alla conoscenza e alla tecnologie. In quella zona grigia la diplomazia può operare in nome della verità, analizzando l’impatto dei fenomeni e proponendo interventi o soluzioni. Si tratta di far emergere nuove capacità, funzionali agli obiettivi di pace e di sicurezza che altrimenti restano pure aspirazioni, prendendo in carico i bisogni e puntando alla riconciliazione, con azioni mirate».  

È l’idea di Papa Francesco, quando guarda all’azione diplomatica impegnata in questioni quali le migrazioni, proponendo «di affrontare non solo l’accoglienza, ma “l’inclusione” intesa nel suo significato più ampio», adottando «soluzioni a contrasti esistenti e possibili». 

Questo approccio richiede alla diplomazia «di non perdere mai di vista chi è il beneficiario ultimo di ogni atto, e cioè la persona». Il fenomeno della mobilità umana, ha continuato Parolin riferendosi a emergenze di stretta attualità, «si pone sempre più anche nella transizione post-conflitto, ambito da cui non è estraneo il ritorno, con le questioni legate al reinsediamento di persone che la forza delle armi ha costretto a fughe precipitose, a recidere legami e ad abbandonare beni materiali. Il negoziato e lo strumento diplomatico in questi frangenti debbono essere ben consci che gli aspetti connessi al rientro vanno affrontati e risolti secondo giustizia, anche per prevenire diaspore che sono cause di ulteriori conflitti. E questo chiede ad esempio di risolvere le questioni derivate dalle situazioni create dalle occupazioni, con il controllo e il possesso di beni». 

Per la Santa Sede, ha ribadito il Segretario di Stato, «la diplomazia non è neutralità, ma vera contraddizione in senso evangelico che si impone con la competenza, l’azione mirata verso la giustizia, ma anche con la misericordia». E la diplomazia deve essere attenta non soltanto alle statistiche e agli indici economico-demografici, ma anche alle «logiche politiche» in un mondo frammentato «che accentua le differenze piuttosto che colmare i divari». Ad esempio, ha spiegato Parolin, «il diplomatico, più di ogni altro, può facilmente cogliere quanto siano distanti i Paesi avanzati da quelli cosiddetti in sviluppo. E può capire come la limitata speranza di vita di larghe fasce della popolazione mondiale non può essere spiegata in termini di soglia di povertà, assenza di lavoro, condizioni ambientali impossibili, mancato accesso alle risorse, indisponibilità di tecnologia. Si rischierebbe una lettura superficiale delle situazioni che magari lega alla sola produzione di ricchezza il superamento del divario, tralasciando invece le chiusure e le esclusioni». 

«Nella chiusura e nell’esclusione», infatti, «Papa Francesco individua le cause scatenanti di ogni divario e chiama ad operare in concreto, indicando che per superarle occorre riscoprire un’autentica misericordia». La conseguenza di «un posizionamento orientato alla misericordia – e cioè alla persona, al suo valore imprescindibile, alle sue aspirazioni e ai suoi bisogni — è una diplomazia che persegue non una possibile pace, ma una pace rispondente alla realtà concreta che è mutabile e in divenire». Superando «la staticità ormai globalizzante», è necessario che la diplomazia riconosca «la complessità, la fragilità e anche l’ambiguità dei processi che essa segue, inizia, risolve e chiude». 

La diplomazia pontificia, ha concluso il Segretario di Stato, propone oggi «il valore aggiunto della misericordia, quale fattore costruttivo e garante dell’ordine internazionale». 

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