Non confondere l’amore col delirio del possesso, che causa le sofferenze più atroci. Perché contrariamente a quanto comunemente si pensa, l’amore non fa soffrire. Quello che fa soffrire è l’istinto della proprietà, che è il contrario dell’amore. Perché se amo Dio me ne vado a piedi sulla strada zoppicando per portarlo agli altri uomini. Non riduco il mio Dio in schiavitù. Io mi nutro di tutto ciò che egli concede agli altri. In tal modo so riconoscere chi ama veramente dal fatto che egli non può essere danneggiato…
Il vostro amore è basato sull’odio poiché fate della donna o dell’uomo i vostri schiavi considerandoli dei beni di cui solo voi dovete godere e cominciate a odiare, come i cani quando girano attorno al truogolo, chiunque adocchia il vostro pasto. Voi chiamate amore questo pasto da egoista. Appena l’amore vi è concesso, di questo dono spontaneo, come nelle false amicizie, fate una servitù e una schiavitù, e dal momento in cui siete amati cominciate a scoprirvi danneggiati e a infliggere agli altri, per meglio asservirli, il triste spettacolo della vostra sofferenza. Voi soffrite veramente ed è proprio questa sofferenza che mi disgusta. Per quale motivo secondo voi dovrei ammirarla?
Certo anch’io quand’ero giovane ho camminato su e giù sulla mia terrazza per via di qualche schiava fuggita nella quale leggevo la mia guarigione. Avrei sollevato eserciti interi per riconquistarla. E per possederla avrei gettato ai suoi piedi intere province, ma Dio mi è testimone che non ho mai confuso il senso delle cose e che non ho mai definito amore, anche se metteva in gioco la mia vita, questa ricerca della preda.
L’amicizia io la riconosco dal fatto che non può essere delusa e riconosco l’amore vero dal fatto che non può essere oltraggiato.
Se qualcuno viene a dirti: “Ripudia, quella donna perché ti disonora…”, ascoltalo con indulgenza, ma non mutare il tuo comportamento, poiché chi ha il potere di disonorarti?
E se qualcuno viene a dirti: “Ripudiala, tanto tutte le tue cure sono inutili…”, ascoltalo con indulgenza ma non mutare il tuo comportamento, poiché un giorno hai fatto la tua scelta. Se ti possono rubare ciò che ricevi, chi ha il potere di rubarti quello che offri?
E se qualcun altro viene a dirti: “Qui hai dei debiti. Qui non ne hai. Qui si riconoscono i tuoi meriti. Qui sono beffeggiati”, tappati le orecchie per non sentire simili calcoli.
A tutti costoro dovrai rispondere: “Amarmi significa anzitutto collaborare con me” [10] .
Il cristianesimo di Saint-Exupéry
Se i suoi Diari ci testimoniano perplessità su singoli punti della dottrina e della prassi ecclesiale, la vita di Saint-Exupéry non si allontanò dalla professione di fede cattolica. Il 24 luglio 1944 [11], pochi giorni prima della sua morte, fu padrino di battesimo a La Marsa, nei pressi di Tunisi, del figlio di tre mesi di Gavoille, il responsabile della squadriglia francese dei Lightning P 38 con i quali volava. Nel viaggio dagli Stai Uniti al fronte, per riprendere le armi, dichiarava ad Henry Elkin, psicoanalista junghiano, che, non appena la guerra fosse finita, sarebbe entrato nel monastero di Solesmes e, per avvalorare la tesi, concludeva le conversazioni cantando in gregoriano (era rimasto ammirato dal canto liturgico monastico dell’abbazia di Solesmes, ma è evidente a chiunque che mai, comunque, si sarebbe deciso ad entrare realmente nella vita monastica e che quelle parole erano solo una esagerazione!). Nel dicembre 1942 lo troviamo arrivare tardi per una cena a casa propria, alla quale aveva invitato cinque coppie di amici per essere andato a messa nella cattedrale per l’ultimo dell’anno, con la moglie Consuelo. Al ritorno, trovando gli invitati in attesa, esclama: “Per l’amore del cielo! Se non ti prendi la polmonite in Chiesa, non puoi dire di avere veramente assistito alla messa di mezzanotte!”. Ma, come ne sia di queste cose, è la responsabilità, è la serietà del legame che unisce e deve unire gli uomini, che fa sorgere continuamente nell’opera di Saint-Exupéry l’esigenza di un orizzonte che trascenda l’uomo, impedendogli di perdersi nel nulla. Nel dialogo con il serpente, con la morte, nel Piccolo principe per due volte scrive: “E rimasero in silenzio”. Nelle righe finali troviamo scritto:
E’ tutto un grande mistero. Per voi che pure volete bene al piccolo principe, come per me, tutto cambia nell’universo se in qualche luogo, non si sa dove, una pecora che non conosciamo ha, si o no, mangiato una rosa. Guardate il cielo e domandatevi: la pecora ha mangiato o non ha mangiato il fiore? E vedrete che tutto cambia… [12]
E l’ultima espressione di Cittadella, quella con cui termina il manoscritto del libro – dopo che il re, avendo raccontato dei due giardinieri, riflette sul misteri di due re che, pur essendo nemici, “abbelliscono l’anima del loro popolo” – è, ancora, una ammissione di mistero, di presenza divina, di un essenziale non visibile, ma necessario:
Perché tu, o Signore, sei la comune misura di entrambi. Sei il nodo essenziale di azioni diverse [13] .
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[Nota 1] A.de Saint-Exupéry, Cittadella , Borla, Torino, 1965, pp.326-329.
[Nota 2] A.de Saint-Exupéry, Terra degli uomini , Mursia, Milano, 1993, p.169.
[Nota 3] A.de Saint-Exupéry, Cittadella , Borla, Torino, 1965, pp.33-34.
[Nota 14] A.de Saint-Exupéry, Cittadella , Borla, Torino, 1965, pp.308.
[Nota 5] A.de Saint-Exupéry, Cittadella , Borla, Torino, 1965, pp.35-36.
[Nota 6] A.de Saint-Exupéry, Cittadella , Borla, Torino, 1965, p.27.
[Nota 7] A.de Saint-Exupéry, Cittadella , Borla, Torino, 1965, pp.29.
[Nota 8] A.de Saint-Exupéry, Cittadella , Borla, Torino, 1965, pp.161-162.
[Nota 9] A.de Saint-Exupéry, Cittadella , Borla, Torino, 1965, pp.51.
[Nota 10] A.de Saint-Exupéry, Cittadella , Borla, Torino, 1965, pp.150-151.
[Nota 11] Per le tre brevi notizie seguenti vedi S.Schiff, Antoine de Saint-Exupéry. Biografia , Bompiani, Milano, 1994, pagg. 435, 442 e 475.
[Nota 12] A.de Saint-Exupéry., Il piccolo principe, Bompiani, Milano, 1989, p.122.
[Nota 13] A.de Saint-Exupéry, Cittadella , Borla, Torino, 1965, pp.331.