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Il piccolo principe e la sua rosa… per chi vuole capirci qualcosa

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don Andrea Lonardo - Centro Culturale "Gli Scritti" - pubblicato il 27/08/16

L’immagine della rosa non appare la prima volta con Il piccolo principe, ma accompagna l’intera opera di Saint-Exupèry. La troviamo già in Terra degli uomini, ma soprattutto l’ultimo brano di Cittadella, quasi a conchiudere tutta l’opera di Saint-Exupéry, la riprende in un testo che vive di una commozione straordinaria. Il re della Cittadella riassume tutto il suo insegnamento nella tenerezza di due giardinieri che si sono amati nell’essere ognuno fedele al proprio compito, all’amore per la bellezza dei roseti che erano stati loro affidati [1]:

Ho conosciuto un vecchio giardiniere che mi parlava del suo amico. Erano entrambi vissuti a lungo come fratelli prima che la vita li separasse, bevendo il tè serale insieme, celebrando le medesime feste, e cercandosi l’un l’altro per chiedersi qualche consiglio o per farsi delle confidenze. Evidentemente avevano ben poco da dirsi e tuttavia, terminato il lavoro, li si vedeva passeggiare insieme ed osservare in silenzio i fiori, i giardini, il cielo e gli alberi. Ma se uno di essi scuoteva il capo tastando col dito qualche pianta, l’altro si chinava a sua volta e scoprendo le tracce dei bruchi, scuoteva il capo anche lui. E i fiori sbocciati procuravano a entrambi la stessa gioia. Ora avvenne che un mercante, avendo assunto uno di essi, lo aggregò per qualche settimana alla propria carovana. Ma i predoni di carovane, poi le vicende della vita, e le guerre tra gli imperi, e le tempeste, e i naufragi, e le disavventure, e i lutti, e i mestieri per vivere sballottarono costui per molti anni come una botte sul mare, respingendolo di giardino in giardino fino ai confini del mondo.

Or ecco che un giorno il mio giardiniere, dopo una vecchiaia di silenzio, ricevette una lettera dal suo amico. Dio solo sa quanti anni avesse navigato. Dio solo sa quali diligenze, quali cavalieri, quali navi, quali carovane l’avessero di volta in volta istradata fino al suo giardino. E quella mattina, siccome era raggiante di felicità e la voleva condividere con qualcuno, mi pregò di leggere, così come si prega di leggere una poesia, la lettera che aveva ricevuto. E spiava sul mio viso l’emozione che mi procurava la lettura. Evidentemente non si trattava che di qualche parola poiché i due giardinieri erano più abili nel maneggiar la vanga che la penna. Lessi semplicemente: “Questa mattina ho potato i miei roseti…”. Poi meditando sull’essenziale, che mi pareva informulabile, scossi il capo come avrebbero fatto loro.

Ecco dunque che il mio giardiniere non ebbe più pace. L’avresti potuto sentire che s’informava sulla geografia, la navigazione, i corrieri, le carovane e le guerre tra gli imperi. E tre anni più tardi dovetti per caso spedire un messaggero dall’altra parte della terra. Feci perciò chiamare il giardiniere: “Puoi scrivere al tuo amico”, gli dissi. I miei alberi ne soffersero un poco e così pure gli ortaggi nell’orto, e i bruchi regnarono indisturbati, poiché egli passava le giornate tappato in casa a scarabocchiare, a cancellare, a ricominciare il lavoro da capo, sudando come uno scolaretto sul suo compito, perché sentiva qualcosa d’urgente da dire e doveva trasportare tutto se stesso, con la propria verità, dal suo amico. Doveva costruire la propria passerella sull’abisso raggiungere l’altra parte di sé attraverso lo spazio e il tempo. Doveva dire il suo amore. Arrossendo, venne a sottopormi la sua risposta per spiare anche questa volta sul mio volto il riflesso della gioia che avrebbe illuminato il volto del destinatario e per provare così su me il potere delle sue confidenze. E (poiché effettivamente non v’era nulla di più importante da far sapere, giacché per lui si trattava di un bene col quale barattare se stesso, alla maniera delle vecchie che si consumano gli occhi sui ricami per infiorare il loro dio) io lessi che confidava all’amico, con la sua scrittura forzata e maldestra, come una preghiera fervente ma espressa con parole semplici: “Anch’io questa mattina ho potato i miei roseti…”. E letto questo tacqui, meditando sull’essenziale che cominciava ad apparirmi più chiaro, perché essi senza saperlo ti celebravano, o Signore, unendosi in te al di sopra dei roseti.  

La tesi di Saint-Exupéry, monito radicato nella sua comprensione della vita, è che la relazione abbia sempre una triplice polarità.

Mai l’amore consiste semplicemente nello scegliersi l’un l’altro. Esso piuttosto vive di una fecondità condivisa, di un dono che supera l’incontro di due vite. Troviamo in Terra degli uomini questa affermazione semplice ed incisiva che lo testimonia [2]:

Legati ai nostri fratelli da un fine comune e situato fuori di noi, solo allora respiriamo, e l’esperienza ci mostra che amare non significa affatto guardarci l’un l’altro ma guardare insieme nella stessa direzione. Non si è compagni che essendo uniti nella stessa cordata, verso la stessa vetta in cui ci si ritrova…

Tu muori se muoiono le tue divinità, poiché tu vivi di esse

Questo è il luogo, nel pensiero di Saint-Exupéry, per la domanda di senso del vivere, per la ricerca che non esitiamo a definire religiosa. Il re di Cittadella sa che il suo compito non è tanto sfamare un popolo, dare sicurezza o sviluppo economico. Egli è posto a reggere la tensione verso il motivo del vivere che abbracci tutti i suoi sudditi e tutti i momenti del loro vivere. L’uomo non può trattenere la sua vita. La può solo donare. Ma, perché ciò sia possibile, è necessario un motivo per il quale valga la pena dare la propria vita.

“Signore, un tempo abitavo in un villaggio costruito sul dorso rassicurante di una collina, abbarbicato al terreno e al suo cielo, un villaggio fondato per durare a lungo, ed infatti durava. Un’usura meravigliosa brillava sull’orlo dei nostri pozzi, sulla pietra delle nostre soglie, sulla curva spalletta delle nostre fontane. Ma ecco che una notte qualche cosa si svegliò negli strati sotterranei. Capimmo che sotto i nostri piedi la terra ricominciava a vivere e a impastarsi. Ciò che era fatto ridiventava lavoro. E noi avevamo paura. Avevamo paura non tanto per noi stessi quanto piuttosto per l’oggetto dei nostri sforzi, per quelle cose con le quali ci scambiavamo nel corso della vita. Io ero cesellatore ed avevo paura per la grande brocca d’argento, alla quale lavoravo già da due anni. Per essa avevo dato in cambio due anni di veglie. Un altro tremava per i suoi tappeti di lana pregiata che aveva tessuto nella gioia. Ogni giorno li sciorinava al sole. Era fiero di aver barattato un po’ della sua carne raggrinzita con quell’onda che pareva profonda. Un altro remava per gli olivi che aveva piantato. Posso dire che nessuno di noi temeva la morte, però tutti tremavano per dei miseri oggetti senza importanza. Scoprivamo che la vita non ha senso se non la si offre in cambio di qualcosa a poco a poco. La morte del giardiniere non lede un albero, ma se tu minacci l’albero allora il giardiniere muore due volte. Fra noi c’era anche un vecchio cantastorie che conosceva i più bei racconti del deserto. Egli li aveva abbelliti ed era il solo a conoscerli poiché non aveva alcun figlio. E mentre la terra cominciava a scivolare egli tremava per delle povere storie che mai più nessuno avrebbe raccontate… “Dove ci conduci? Questa nave affonderà col frutto dei nostri sforzi. Io sento che fuori il tempo scorre invano. Sento il tempo che scorre. Non dovrebbe scorrere in modo così sensibile, ma consolidare, far maturare e invecchiare. Dovrebbe raccogliere a poco a poco il lavoro. Ma che cosa rimarrà ormai di tutto quello che abbiamo fatto?” [3]

L’uomo “scambia” la sua esistenza, la dona a servizio non di sé, ma di ciò che lo supera. Se non esistesse niente di più importante dell’uomo a niente varrebbe il suo dono ed il suo esistere:

Tu muori se muoiono le tue divinità, poiché tu vivi di esse. E tu puoi vivere solo di quello per il quale puoi morire [4].

Questa responsabilità che si fa dono, richiede la permanenza di un sistema di valori, di un mondo di simboli e di contenuti che debbono essere sì continuamente fecondi di nuova creazione, ma non possono mai essere semplicemente dimenticati ed accantonati:

E me ne andai tra il mio popolo pensando che lo scambio non è più possibile quando nulla di stabile dura attraverso le generazioni, e che il tempo allora fluisce inutilmente come una clessidra. Pensavo: “Questa dimora non è abbastanza vasta e l’opera in cambio della quale il mio popolo offre se stesso non è ancora abbastanza duratura”. Pensavo ai faraoni che si fecero costruire grandi mausolei indistruttibili e angolosi, i quali avanzano nell’oceano del tempo che li riduce lentamente in polvere. Pensavo alle grandi distese di sabbie vergini delle carovane da cui talvolta emerge un tempio antichissimo semisommerso e come disalberato dall’invisibile tempesta azzurra, ancora semigalleggiante, ma ormai condannato. Pensavo: non è abbastanza duraturo questo tempio pieno di dorature, di oggetti preziosi che sono costati lunghe vite umane, con quel miele custodito da tante generazioni, con quelle filigrane dorate, quegli ornamenti sacerdotali, per i quali vecchi artigiani avevano, giorno per giorno, dato la loro vita; e quelle tovaglie ricamate su cui vecchie donne durante tutta la loro esistenza si sono lentamente consumate la vista, e, ormai rattrappite, tossicchianti, scosse già dalla morte, hanno lasciato dietro di sé questo strascico regale, questa distesa di prateria. E quelli che oggi lo vedono esclamano: “Com’è bello questo ricamo! Oh! com’è bello…”. Io scopro che quelle vecchie hanno filato la seta nella loro metamorfosi, senza sapere di essere così meravigliose. Ma occorre costruire la grande cassa per accogliere tutto quello che di essi rimarrà, e il veicolo per trasportarla. Perché io rispetto innanzi tutto quello che dura più degli uomini, e salvo così il significato dei loro scambi. Fondo il grande tabernacolo al quale gli uomini affideranno tutto se stessi.

In tal modo posso ancora ritrovarle, quelle lente navi nel deserto mentre proseguono il loro viaggio. Ho imparato qualcosa di essenziale: e cioè, prima si deve costruire la nave, equipaggiare la carovana ed erigere il tempio che duri più dell’uomo. Solo allora gli uomini offriranno con gioia la loro vita in cambio di un bene più prezioso. E nasceranno i pittori, gli scultori, gli incisori e i cesellatori. Ma non sperare nulla dall’uomo se lavora per la propria vita e non per la propria eternità Perché allora sarebbe proprio inutile che io insegni loro l’architettura e le sue regole. Se essi si costruiscono delle case per viverci dentro a che serva dare la propria vita in cambio della casa, dal momento che quella casa dove servire la loro vita e nient’altro?. Gli uomini ritengono inutile la loro casa e la considerano non per quello che essa è, ma soltanto per la sua comodità. La casa è al loro servizio ed essi pensano ad arricchirsi. Ma muoiono spiantati perché non lasciano dietro di sé né la tovaglia ricamata né l’ornamento sacerdotale al riparo dentro una nave di pietra. Sollecitati a dare se stessi in cambio di qualcosa hanno voluto essere serviti. E quando se ne vanno non rimane più nulla [5].

Perciò io odio l’ironia che non è degna dell’uomo, ma dell’ignorante. Infatti l’ignorante dice loro: “In altri luoghi le usanze sono diverse dalle vostre. Perché non cambiarle?”. Così come se avesse detto: “Chi vi obbliga a mettere le messi nel granaio e gli armenti nelle stalle?”. Ma è lui la vittima delle parole, poiché ignora quello che le parole non possono esprimere. Ignora che gli uomini abitano una casa. E le sue vittime che non sanno più riconoscerla cominciano a demolirla. Gli uomini dilapidano in tal modo il loro bene più prezioso: il senso delle cose. E si vantano, nei giorni di festa, di non cedere alle usanze, di non rispettare le loro tradizioni, di festeggiare il loro nemico. E mentre compiono i loro sacrilegi, provano certamente qualche movimento interiore. Ma fin tanto che si tratta di un sacrilegio, fin tanto che insorgono contro qualche cosa che grava ancora su loro. E vivono di questo, che il loro nemico respira ancora. Ma l’ombra delle leggi li infastidisce ancora abbastanza perché si sentano contro di esse. Ma ben presto anche l’ombra svanirà. Allora non proveranno più nulla, poiché anche il sapore della vittoria verrà dimenticato. E sbadiglieranno [6].

C’è un legame divino che lega il tempo all’eternità. Esso è trasmesso dalla tradizione che rende un cumulo di pietre un palazzo od un luogo di culto, di preghiera e di mistero:

Dimora degli uomini, chi potrebbe fondarti sul ragionamento? Chi sarebbe in grado di costruirti secondo la logica? Tu esisti e non esisti. Sei e non sei. Sei fatta di materiali disparati, ma bisogna inventarti per scoprirti. Così come quel tale che ha distrutto la sua casa con la pretesa di conoscerla, non possiede altro che un cumulo di pietre, di mattoni e di tegole, non ritrova né l’ombra né il silenzio né l’intimità a cui essi servivano, e non sa quale giovamento possa trarre da questo cumulo di mattoni, di pietre e di tegole, poiché manca loro l’idea geniale che li domini, l’anima e il cuore dell’architetto. Perché alla pietra manca l’anima e il cuore dell’uomo [7].

“L’essenziale è invisibile agli occhi”, “Non si vede bene che con il cuore” ripeterà il piccolo principe, cercando di fare tesoro delle parole della volpe. La “serietà” del dono, che richiede chi/Chi lo accolga e lo riceva non lascia alcuno spazio al narcisismo, che cerca, invece, di esaltare la persona senza che essa arrivi a donarsi:

Mi vennero in mente alcune considerazioni sulla vanità, poiché essa non mi è mai sembrata un vizio ma una malattia. Quella donna sensibile all’opinione della folla, quella donna che ho visto dimenarsi e scalmanarsi poiché tutti l’ammiravano, traendo un godimento straordinario dalle parole pronunciate al suo indirizzo, quella donna il cui volto s’infiammava quando tutti la guardavano, non mi sembrava soltanto stupida: mi sembrava malata. Perché come si può trarre le proprie gioie dagli altri se non attraverso l’amore e il dono di sé? Eppure la gioia che costei traeva dalla sua vanità le sembrava più intensa di quella che procurano i beni materiali, poiché per questo piacere avrebbe dato tutto a scapito di altri piaceri.
Che cos’è che commuove uno e che cos’è che commuove l’altro? E in che cosa differiscono?
Voi non potrete conoscere il movimento del fiore che sparge al vento tutti i suoi semi che non gli saranno più restituiti.
Non potrete conoscere il movimento dell’albero che offre i suoi frutti che non gli saranno più restituiti.
Non potrete conoscere l’esultanza dell’uomo che consegna la sua opera che non gli sarà più restituita.
Non potrete conoscere il fervore della danzatrice che esegue una danza che non le sarà più restituita.
La stessa cosa avviene del guerriero che offre la propria vita. Se io mi congratulo con lui è perché ha costruito la sua passerella. Gli comunico che egli ha rinunciato a se stesso in favore di tutti gli uomini. Ed eccolo contento non di sé ma degli uomini.
Ma il vanitoso è una caricatura. Io non ti chiedo di essere modesto poiché mi piace l’orgoglio che è resistenza e stabilità. Se sei modesto cedi al vento come la banderuola, poiché il nemico è più forte di te. Io ti chiedo di vivere non di quello che ricevi ma di quello che dai, poiché solo questo ti accresce. Ciò non ti autorizza a disprezzare quello che dai. Tu devi formare il tuo frutto. Ed è l’orgoglio che lo rende permanente. Altrimenti potresti mutare, a seconda di come il vento spira, di colore, di sapore e di odore!
Ma che cos’è un frutto per te? Il tuo frutto ha valore soltanto se non può esserti restituito [8].

E’ così importante il dono che, per esso, bisogna imparare a scegliere e, quindi, anche a rinunciare ad altre possibilità. Chi vuole tenere aperta ogni possibilità, non arriverà mai veramente a far dono di sé:

Così alla sera io cammino a passi lenti tra il mio popolo e tacitamente lo circondo del mio amore. Sono soltanto inquieto per coloro che ardono di una vana luce, per il poeta pieno d’amore per la poesia ma che non scrive il suo poema, per la donna innamorata dell’amore ma che, non sapendo scegliere, non può divenire; tutti pieni di angoscia, poiché sanno che io li potrei guarire di questa angoscia se permettessi loro di fare quell’offerta che esige sacrificio, scelta e dimenticanza dell’universo. Perché il tal fiore esclude innanzi tutto ogni altro fiore. E tuttavia solo a questa condizione esso è bello. Così avviene per l’oggetto dello scambio. E lo stolto che va a rimproverare a quella vecchia il suo ricamo col pretesto che avrebbe potuto tessere qualcos’altro, preferisce dunque il nulla alla creazione. Così cammino e sento salire la preghiera nell’odore dell’accampamento nel quale tutto matura e si forma in silenzio, lentamente, senza quasi che ci si pensi. Il frutto, il ricamo o il fiore, per divenire, è nel tempo che sono immersi.

Durante le mie lunghe passeggiate ho capito che il valore della civiltà del mio impero non riposa sulla qualità dei cibi ma sulla qualità delle esigenze e sul fervore del lavoro. Questo valore non è dato dal possesso, ma dal dono di sé. E’ civilizzato innanzi tutto quell’artigiano che si ricrea nell’oggetto; in compenso egli diviene eterno, in quanto non teme più di morire. Ma quest’altro che si circonda di oggetti di lusso comperati dai mercanti, non ne trae alcun vantaggio se non ha creato nulla, anche se nutre il suo sguardo di cose perfette. Conosco quelle razze imbastardite che non scrivono più i loro poemi ma li leggono, che non coltivano più la loro terra ma si fondano anzitutto sugli schiavi. Contro di loro le sabbie del Sud preparano incessantemente nella loro miseria creatrice le tribù vive che saliranno alla conquista delle loro provviste morte. Non amo chi è sedentario nel cuore. Quelli che non offrono nulla non divengono nulla. La vita non servirà a maturarli, e il tempo per loro fluisce come una manciata di sabbia disperdendoli. Che cosa offrirò a Dio in loro nome?

Nemmeno la paura di sbagliare, di fallire, deve essere un ostacolo. E’, infatti, un popolo intero che cammina verso il suo Dio. E, in questo cammino comune, sono necessari tanto gli errori, quanto i successi. Gli uni e gli altri si illuminano a vicenda di senso:

Mio padre rispose loro: “Creare, forse significa sbagliare quel passo nella danza. Significa dare di traverso quel colpo di scalpello nella pietra. Poco importa il fine di un’azione. Questo sforzo ti sembra sterile perché sei cieco e guardi troppo da vicino. Ma allontanati un po’; osserva da maggior distanza il movimento di quel quartiere di città. Non vedrai più che un grande fervore e la polvere dorata del lavoro. I colpi falliti non li noti più. Perché quel popolo curvo sul lavoro, voglia o non voglia, edifica i suoi palazzi o le sue cisterne o i suoi ampi giardini pensili. Le sue opere nascono necessariamente, come d’incanto, dalle sue dita. Ed io ti dico: quelle opere nascono sia da coloro che falliscono i loro colpi che da coloro che li azzeccano, perché non puoi separare gli uomini. Se tu salvi solo i grandi scultori sarai privo di grandi scultori. Chi sarebbe così pazzo da scegliere un mestiere che offre così poche possibilità di vivere? Il grande scultore nasce dal terriccio composto di cattivi scultori. Essi gli servono da scala e lo innalzano. La bella danza nasce dalla passione per la danza. E questa passione per la danza richiede che tutti danzino – anche quelli che danzano male – altrimenti non c’è passione, ma solo accademia pietrificata e spettacolo senza significato” [9].

Veramente il delirio del possesso ed il dono appaiono come le due logiche antitetiche fra le quali l’uomo è chiamato a scegliere. Gli abitanti dei sei pianeti (cioè i terrestri che abitano il settimo pianeta del Piccolo principe, la Terra) vivono il dramma dell’insignificanza, proprio perché non accedono al dono. Solo il “lampionaio” non appare ridicolo al Piccolo principe. “Forse perché si occupa di altro che di se stesso”. Ma il suo mondo è troppo piccolo. “Decisamente i grandi sono ben bizzarri” ripete il Piccolo principe, dinanzi ad ogni vita che non divenga dono. Il re di Cittadella così spiega:

Non confondere l’amore col delirio del possesso, che causa le sofferenze più atroci. Perché contrariamente a quanto comunemente si pensa, l’amore non fa soffrire. Quello che fa soffrire è l’istinto della proprietà, che è il contrario dell’amore. Perché se amo Dio me ne vado a piedi sulla strada zoppicando per portarlo agli altri uomini. Non riduco il mio Dio in schiavitù. Io mi nutro di tutto ciò che egli concede agli altri. In tal modo so riconoscere chi ama veramente dal fatto che egli non può essere danneggiato…

Il vostro amore è basato sull’odio poiché fate della donna o dell’uomo i vostri schiavi considerandoli dei beni di cui solo voi dovete godere e cominciate a odiare, come i cani quando girano attorno al truogolo, chiunque adocchia il vostro pasto. Voi chiamate amore questo pasto da egoista. Appena l’amore vi è concesso, di questo dono spontaneo, come nelle false amicizie, fate una servitù e una schiavitù, e dal momento in cui siete amati cominciate a scoprirvi danneggiati e a infliggere agli altri, per meglio asservirli, il triste spettacolo della vostra sofferenza. Voi soffrite veramente ed è proprio questa sofferenza che mi disgusta. Per quale motivo secondo voi dovrei ammirarla?

Certo anch’io quand’ero giovane ho camminato su e giù sulla mia terrazza per via di qualche schiava fuggita nella quale leggevo la mia guarigione. Avrei sollevato eserciti interi per riconquistarla. E per possederla avrei gettato ai suoi piedi intere province, ma Dio mi è testimone che non ho mai confuso il senso delle cose e che non ho mai definito amore, anche se metteva in gioco la mia vita, questa ricerca della preda.

L’amicizia io la riconosco dal fatto che non può essere delusa e riconosco l’amore vero dal fatto che non può essere oltraggiato.
Se qualcuno viene a dirti: “Ripudia, quella donna perché ti disonora…”, ascoltalo con indulgenza, ma non mutare il tuo comportamento, poiché chi ha il potere di disonorarti?

E se qualcuno viene a dirti: “Ripudiala, tanto tutte le tue cure sono inutili…”, ascoltalo con indulgenza ma non mutare il tuo comportamento, poiché un giorno hai fatto la tua scelta. Se ti possono rubare ciò che ricevi, chi ha il potere di rubarti quello che offri?

E se qualcun altro viene a dirti: “Qui hai dei debiti. Qui non ne hai. Qui si riconoscono i tuoi meriti. Qui sono beffeggiati”, tappati le orecchie per non sentire simili calcoli.

A tutti costoro dovrai rispondere: “Amarmi significa anzitutto collaborare con me” [10] .

Il cristianesimo di Saint-Exupéry

Se i suoi Diari ci testimoniano perplessità su singoli punti della dottrina e della prassi ecclesiale, la vita di Saint-Exupéry non si allontanò dalla professione di fede cattolica. Il 24 luglio 1944 [11], pochi giorni prima della sua morte, fu padrino di battesimo a La Marsa, nei pressi di Tunisi, del figlio di tre mesi di Gavoille, il responsabile della squadriglia francese dei Lightning P 38 con i quali volava. Nel viaggio dagli Stai Uniti al fronte, per riprendere le armi, dichiarava ad Henry Elkin, psicoanalista junghiano, che, non appena la guerra fosse finita, sarebbe entrato nel monastero di Solesmes e, per avvalorare la tesi, concludeva le conversazioni cantando in gregoriano (era rimasto ammirato dal canto liturgico monastico dell’abbazia di Solesmes, ma è evidente a chiunque che mai, comunque, si sarebbe deciso ad entrare realmente nella vita monastica e che quelle parole erano solo una esagerazione!). Nel dicembre 1942 lo troviamo arrivare tardi per una cena a casa propria, alla quale aveva invitato cinque coppie di amici per essere andato a messa nella cattedrale per l’ultimo dell’anno, con la moglie Consuelo. Al ritorno, trovando gli invitati in attesa, esclama: “Per l’amore del cielo! Se non ti prendi la polmonite in Chiesa, non puoi dire di avere veramente assistito alla messa di mezzanotte!”. Ma, come ne sia di queste cose, è la responsabilità, è la serietà del legame che unisce e deve unire gli uomini, che fa sorgere continuamente nell’opera di Saint-Exupéry l’esigenza di un orizzonte che trascenda l’uomo, impedendogli di perdersi nel nulla. Nel dialogo con il serpente, con la morte, nel Piccolo principe per due volte scrive: “E rimasero in silenzio”. Nelle righe finali troviamo scritto:

E’ tutto un grande mistero. Per voi che pure volete bene al piccolo principe, come per me, tutto cambia nell’universo se in qualche luogo, non si sa dove, una pecora che non conosciamo ha, si o no, mangiato una rosa. Guardate il cielo e domandatevi: la pecora ha mangiato o non ha mangiato il fiore? E vedrete che tutto cambia… [12]

E l’ultima espressione di Cittadella, quella con cui termina il manoscritto del libro – dopo che il re, avendo raccontato dei due giardinieri, riflette sul misteri di due re che, pur essendo nemici, “abbelliscono l’anima del loro popolo” – è, ancora, una ammissione di mistero, di presenza divina, di un essenziale non visibile, ma necessario:

Perché tu, o Signore, sei la comune misura di entrambi. Sei il nodo essenziale di azioni diverse [13] .

——-

[Nota 1] A.de Saint-Exupéry, Cittadella , Borla, Torino, 1965, pp.326-329.

[Nota 2] A.de Saint-Exupéry, Terra degli uomini , Mursia, Milano, 1993, p.169.

[Nota 3] A.de Saint-Exupéry, Cittadella , Borla, Torino, 1965, pp.33-34.

[Nota 14] A.de Saint-Exupéry, Cittadella , Borla, Torino, 1965, pp.308.

[Nota 5] A.de Saint-Exupéry, Cittadella , Borla, Torino, 1965, pp.35-36.

[Nota 6] A.de Saint-Exupéry, Cittadella , Borla, Torino, 1965, p.27.

[Nota 7] A.de Saint-Exupéry, Cittadella , Borla, Torino, 1965, pp.29.

[Nota 8] A.de Saint-Exupéry, Cittadella , Borla, Torino, 1965, pp.161-162.

[Nota 9] A.de Saint-Exupéry, Cittadella , Borla, Torino, 1965, pp.51.

[Nota 10] A.de Saint-Exupéry, Cittadella , Borla, Torino, 1965, pp.150-151.

[Nota 11] Per le tre brevi notizie seguenti vedi S.Schiff, Antoine de Saint-Exupéry. Biografia , Bompiani, Milano, 1994, pagg. 435, 442 e 475.

[Nota 12] A.de Saint-Exupéry., Il piccolo principe, Bompiani, Milano, 1989, p.122.

[Nota 13] A.de Saint-Exupéry, Cittadella , Borla, Torino, 1965, pp.331.

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