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La triste sorte dei cristiani d’Etiopia

Feyisa Lilesa – Etiopia

AFP PHOTO / OLIVIER MORIN

Ethiopia's Feyisa Lilesa crossed his arms above his head at the finish line of the Men's Marathon athletics event of the Rio 2016 Olympic Games at the Sambodromo in Rio de Janeiro on August 21, 2016. Lilesa crossed his arms above his head as he finished the race as a protest against the Ethiopian government's crackdown on political dissent. / AFP PHOTO / OLIVIER MORIN

Valerio Evangelista - Aleteia - pubblicato il 23/08/16

La foto-simbolo del maratoneta Feysa Lilesa cela la complessa situazione del paese africano, fatta di persecuzione religiosa e oppressione delle minoranze

“Se torno in patria mi uccidono. O mi mettono in galera”. Parole forti, quelle usate da Feysa Lilesa nel commentare il gesto delle manette fatto dopo aver vinto una medaglia d’argento alle Olimpiadi di Rio. Un simbolo di protesta nei confronti del governo dell’Etiopia, che è accusato di opprimere il numeroso gruppo etnico degli Omoro, a cui appartiene l’atleta: “Ci ammazzano, ci mettono in prigione. Le persone spariscono: molti membri della mia famiglia non ci sono più, compreso mio padre”, ha spiegato Lilesa.

La foto delle “manette” di Lilesa è stata ripresa da tutti i principali giornali (sportivi e non) del mondo. E ha riportato all’attenzione il dibattito sui diritti umani in Etiopia. Ma qual è la vera situazione del paese africano? E quale il ruolo della religione all’interno di queste tensioni etniche e sociali?

Lo abbiamo chiesto a Don Mussie Zerai, sacerdote cattolico eritreo responsabile per la Pastorale dei Cattolici eritrei in Svizzera (dove vive).

Definito “un Pioniere” dalla rivista Time, “Padre Moses” arrivò a Roma a 14 anni come richiedente asilo: lì conobbe un sacerdote britannico che lo aiutò a superare i lacci della burocrazia, un’esperienza che segnò per sempre il suo percorso di fede e di vita.

Candidato Premio Nobel per la Pace nel 2015 e soprannominato “angelo dei profughi”, il sacerdote scalabriniano è fondatore di Habeshia, un’Ong per l’integrazione degli immigrati provenienti da Etiopia, Eritrea e Somalia.


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Abba Mussie, il gesto di Feysa Lilesa ha riacceso i riflettori sull’Etiopia, paese considerato amico dell’Occidente ma la cui situazione interna è, per così dire, particolare.

La situazione è “particolare” da molto tempo, sul piano dei diritti e delle libertà democratiche. In concomitanza delle diverse elezioni tenute sinora ci sono state molte denunce di abusi, maltrattamenti e arresti arbitrari. Queste ed altre violazioni dei diritti umani riguardano in particolare, ma non soltanto, l’etnia Oromo. Nella regione dell’Ogaden (a Sud, lungo il confine con la Somalia) si presenta invece un’altra situazione di conflitto, dovuta ad interessi di tipo economico e geopolitico. Qui alcuni movimenti politici, per varie ragione storiche, chiedono l’autonomia regionale, se non l’indipendenza vera e propria. Per un motivo o per un altro, vi sono quindi dei gruppi di cittadini che sono entrati in rotta di collisione con il governo centrale. Che però risponde con la repressione e l’aggressione. Da novembre dell’anno scorso, fino a pochi giorni fa, abbiamo assistito nel nord dell’Etiopia (ad esempio nelle aree intorno ad Amhara, Gondar e Bahar Dar) a manifestazioni pacifiche contro il regime. Il dissenso è stato represso nel sangue, con centinaia di morti e decine di migliaia di arresti.

I territori che hai menzionato sono a maggioranza cristiana. Che importanza ha l’appartenenza religiosa in questo mosaico di tensioni sociali e politiche?

Sì, soprattutto nella Regione di Amhara, la popolazione è a maggioranza cristiana. Queste persone sono scese in piazza per chiedere più diritti, più partecipazione nella sfera politica, economica e sociale del Paese. La ricchezza è concentrata nelle mani di pochi, c’è un divario abissale tra ricchi e poveri. Negli ultimi anni alcune persone hanno accumulato soldi in modo smisurato, mentre altri non hanno nulla. Spesso inoltre il potere viene elargito su base etnica. L’Etiopia ha oltre 94 milioni di abitanti (con circa 80 etnie e 90 lingue distinte parlate) e c’è un altissimo tasso di disoccupazione. I giovani, che non trovano lavoro né risposte, sfogano la loro situazione di indigenza e povertà abbracciando ideologie forti e radicali di stampo religioso.

Il cristianesimo in Etiopia ha radici antichissime. Nella foto: preti delle chiesi rupestri di Lalibela, ancora oggi luogo di devozione e pellegrinaggio
wikipedia

Il cristianesimo in Etiopia ha radici antichissime. Nella foto: preti delle chiesi rupestri di Lalibela, ancora oggi luogo di devozione e pellegrinaggio

Oltre alle tensioni di cui hai parlato, è corretto dire che i cristiani ricevono discriminazioni da parte delle istituzioni?

Ci sono situazioni in cui i cristiani sono discriminati, soprattutto nel centro-sud dell’Etiopia. Nella regione di Harar si sono registrate infiltrazioni da parte di alcuni predicatori, provenienti da Pakistan o da altri territori, che stanno radicalizzando l’Islam in Etiopia. Ci sono stati vari casi di chiese cristiane date alle fiamme. Ci sono diversi segnali in questo senso, purtroppo. Anche nella capitale Addis Abeba ci sono delle situazioni di discriminazione, anche da parte delle autorità. Quando i musulmani chiedono un terreno per costruirvi una moschea, di solito non ci sono problemi. Ma i cristiani che fanno la medesima richiesta trovano molte difficoltà burocratiche, e spesso non riescono ad ottenere i permessi. Non si capisce bene il perché. Il ruolo determinante è di chi è al governo locale e municipale, che può riuscire a controllare e manipolare la situazione, negando di fatto i diritti dei cristiani. Questo avviene nella già citata regione di Harar – a maggioranza somala – ma anche nei territori degli Oromo o di altre etnie.

Nella regione di Harar, a maggioranza somala, ci sono infiltrazioni di al-Shabaab?

Siamo al confine, quindi potrebbero esserci. Non ne abbiamo certezza assoluta. Ma è evidente che ci siano predicatori estremisti che radicalizzano l’Islam etiope. Lo si è visto in diverse manifestazioni organizzate da loro, nelle chiese bruciate, nelle persone uccise. Negli ultimi 10 anni c’è stata una graduale crescita di questi segnali.

Il cristianesimo etiope ha radici antichissime, ma l’Etiopia ha anche lunga storia di rapporti tra cristiani e musulmani, tendenzialmente ritenuti positivi. Pensi vi siano dei presupposti per uscire da questa situazione di alta tensione e recuperare l’armonia interculturale?

I musulmani sono molto grati all’Etiopia, perché è dove – durante la Piccola Egira – i primi seguaci di Muhammad hanno trovato riparo dalle persecuzioni pagane. È lì che hanno trovato asilo e protezione dai sovrani della terra d’Arabia dell’epoca. L’Etiopia dimostrò accoglienza e rispetto nei loro confronti. Nella loro tradizione sacra l’Etiopia viene definita “terra di pace”. È considerato quasi un luogo sacro, per molti di loro. Alcuni dei primi seguaci di Muhammad sono sepolti proprio in Etiopia. È vero, l’attuale processo di radicalizzazione rischia di far saltare i secoli di convivenza pacifica che hanno caratterizzato il paese. Ma si può porre un freno a questa deriva, puntando sul dialogo religioso e isolando gli estremisti.

Svolgi la tua opera pastorale in Svizzera, principalmente tra etiopi ed eritrei. Le tensioni dei loro paesi di origine influiscono sul tuo lavoro?

Il mio impegno con loro si concretizza nell’assistenza spirituale e nel sostegno sociale. Li aiuto a comprendere i loro diritti, a districarsi nella burocrazia, a richiedere in modo corretto lo status di rifugiato. Per quanto concerne l’opera sociale mi rapporto con tutti, cristiani o musulmani che siano. Il mio aiuto è rivolto a chiunque ne senta il bisogno, non si può scegliere di servire il prossimo in base a chi si ha di fronte.

Padre Mussie Zerai durante un convegno
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Padre Mussie Zerai durante un convegno

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