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Se non riesce a farci detestare noi stessi, il diavolo ci farà detestare gli altri

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Meg Hunter-Kilmer - pubblicato il 22/08/16

E non serve essere cristiani per imparare questa lezione

«Non si vanti il saggio della sua saggezza e non si vanti il forte della sua forza, non si vanti il ricco delle sue ricchezze. Ma chi vuol gloriarsi si vanti di questo, di avere senno e di conoscere me, perché io sono il Signore che agisce con misericordia, con diritto e con giustizia sulla terra; di queste cose mi compiaccio». – Geremia 9:22-23

Pietro dunque, vedutolo, disse a Gesù: «Signore, e lui?». Gesù gli rispose: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te? Tu seguimi» – Giovanni 21:21-22

Oh, Pietro. C’è qualcuno nelle Scritture che ci dà più consolazione di Pietro? È un disastro totale, eppure è grandemente amato. Fa errori di continuo – errori enormi – eppure resta comunque un eletto. Non vedo l’ora di sedere accanto a Pietro, l’impulsivo, il passionale. E vedere questo uomo irruente reso gentile dall’Amore. Ma fino ad allora, mi consola leggere di lui.

Questo versetto post-Risurrezione ci mostra Pietro appena dopo essere stato perdonato per aver rinnegato Cristo tre volte. Gesù manda Pietro a compiere una pesca miracolosa, proprio come avvenuto durante la sua prima chiamata. Si siedono accanto a un fuoco di brace (un chiaro richiamo al fuoco attorno al quale si trovava Pietro quando rinnegò il Maestro). E gli chiede, per ben tre volte, di dichiarare il suo amore per Lui. E poi afferma che la Sua promessa si compirà: Pietro guiderà la Chiesa di Cristo, sarà il Suo primo Vicario, fedele fino alla fine.

È un lieto fine che Pietro non avrebbe mai potuto immaginare. Ci verrebbe da pensare che – dopo questa promessa – lui torni a sedersi, entusiasta di essersi riconciliato con Cristo.

Pietro invece non riesce a togliere gli occhi di dosso a Giovanni.

Vi ricordate di Giovanni, il “discepolo amato”? Il fedele, colui che non lo ha mai tradito.

Pietro non riesce ad essere contento, perché è occupato a paragonarsi a lui. Non riesce a vedere il dono incredibile che gli è stato fatto, perché è impegnato a guardare a cosa abbia Giovanni. Si chiede se la grazia ricevuta non sia piuttosto un ripiego. Ha appena ricevuto il più grande regalo in tutta la sua vita e non riesce neanche a rendersene conto, perché si preoccupa di ciò che hanno gli altri.


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Abbiamo visto la stessa identica cosa anche a Rio. Chad Le Clos non ha vinto la medaglia perché troppo impegnato a guardare Phelps, invece di guardare il traguardo. I corridori hanno perso energie importanti guardando gli avversari. I nervi dei ginnasti hanno ceduto perché questi ultimi erano certi di non riuscire a sopportare la fatica a cui erano sottoposti. I vincitori delle medaglie d’argento hanno il broncio, perché sono “soltanto” i secondi più bravi al mondo.

Ma c’è un rovescio della medaglia. Quando il fatto che gli altri sembrino migliori non ci offende, gongoliamo nella nostra superiorità. Ci vantiamo della nostra saggezza, della nostra forza, della nostra ricchezza. Pensando che le nostre cinque medaglie d’oro (o gli 85 like su Facebook, i milioni di dollari in banca o le perfette foto di tortine che abbiamo postato su Pinterest) possano avere un seppur minimo significato. Ci aggrappiamo a bigiotteria senza valore, quando il Signore ci offre perle di gran pregio.

E non serve essere cristiani per imparare questa lezione, ma è tremendamente difficile essere cristiani se non la impariamo: la nostra dignità non ha nulla a che vedere con il modo in cui ci paragoniamo agli altri. Non ha a che vedere con la prestanza fisica, con lo stipendio o con la popolarità; qualunque metro utilizziamo per paragonarci agli altri servirà soltanto per distruggere la nostra pace.

Non ci può definire neanche la nostra abilità nel memorizzare le Scritture, trascorrere ore in preghiera, mantenere la calma o donare magnanimamente. Non siamo cristiani migliori perché recitiamo il Rosario più di altri, né siamo persone più sante perché quando preghiamo sentiamo le farfalle nello stomaco. La santità, la fede e l’abilità di compiacere Dio hanno a che fare con Lui, non con noi.

Si dice che (di tanto in tanto nel secolo scorso, ma continuamente con l’avvento dei social media) che il paragone è ladro della gioia. È un trucco che il diavolo ama. Lui ama privarci della fiducia nell’amore di Dio. Lo fa accusandoci di essere molto peggiori (oppure molto migliori) delle altre persone. Se non riesce a farci detestare noi stessi, ci farà detestare il prossimo.


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In qualunque modo si metta, è un inganno. Il nostro cammino con Dio non è paragonarci agli altri, se non alla persona che Dio vuole che noi siamo. Nel momento in cui diciamo a noi stessi di essere i più bravi, intelligenti o veloci immaginiamo Gesù dirci (come ha detto a Pietro): “Che importa a te? Tu seguimi” E quando ci convinciamo di non poter mai raggiungere il successo degli altri oppure essere pazienti o devoti come loro, diciamo di nuovo a noi stessi: “Che importa a te? Tu seguimi”.

Abbiamo bisogno delle altre persone in questo cammino con Cristo. Su questo non ci piove. Ma nel momento in cui togliamo il nostro sguardo da Lui e ci concentriamo sugli altri, tutto inizia ad andare per il verso sbagliato. Teniamo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede (Ebrei 12:2) e ci scopriremo essere dei campioni. Dimentichiamo ciò che pensiamo di dover essere, o cosa sembriamo in confronto agli altri. Seguiamo Lui.

[Traduzione dall’inglese a cura di Valerio Evangelista]

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