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Come si sconfigge la paura che tutto avrà una fine?

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Gelsomino Del Guercio - Aleteia - pubblicato il 18/08/16

Ce lo spiega il cardinale Angelo Scola

L’uomo è capace di infinito e tuttavia, quando agisce, è sempre prigioniero della finitudine: l’uomo vive da sempre questo paradosso che lo costituisce. Una sorgente dalla quale scaturisce la domanda: «Chi mi libererà da questa condizione?».

Il cardinale Angelo Scola prova a sciogliere questo interrogativo nel suo volume “Capaci di infinito” (Marcianum press). Un viaggio attraverso la scoperta del valore della fede per ogni uomo, grazie alla quale si riesce a dirimere questa condizioni limitante dell’uomo: “tutto finisce”, “tutto è precario”, “vivo con il timore della fine”.

IL “QUID” MISTERIOSO

Si tende a superare questa condizioni di precaria finitudine attraverso varie tappe. In primo luogo attraverso mille segni, evidenzia Scola, l’uomo può accorgersi del mistero ed è spinto a costruire relazioni buone e pratiche virtuose che lasciano emergere quel “Quid” misterioso che la grande tradizione di tutti i popoli chiama Dio.

COGLIERE MEGLIO LA REALTA’

Osserva il cardinale:«Credo che l’uomo di oggi sia chiamato a guardare fino in fondo i tratti fondamentali dell’esperienza umana. Il primo e più importante è la capacità di cogliere il senso della realtà: la realtà è intelligibile e chiede di essere ospitata dalla nostra intelligenza. Già questo implica una trascendenza, cioè un andare oltre l’immediato».

LE RELAZIONI CON GLI ALTRI

Il secondo modo, «che pure è decisivo, in un certo senso, ancora più decisivo del primo, è la relazione, il rapporto». Che cosa dice il sorriso di un bimbo alla mamma o il sorriso della mamma al bambino? «Dice che c’è qualcosa che va oltre il proprio io. La relazione buona e positiva mi induce ad uscire da me e diventa, nello stesso tempo, decisiva e costitutiva per il mio benessere».

LA NOSTRA MISSIONE

Se da una parte bisogna essere maggiormente consapevoli di ogni piccolo gesto che accade nella nostra giornata, dovremmo comprendere meglio che ognuno di noi ha una missione. Scola fa l’esempio di Pietro e Paolo. «Chi di noi si ricorderebbe di Pietro se non avessimo conosciuto, tramite i Vangeli, la sua missione? Chi si ricorderebbe di Paolo se non avessimo conosciuto la sua missione? È la missione che personalizza la vocazione. Lo spiega bene la Lettera agli Ebrei, là dove definisce Gesù come “il mandato” in senso assoluto: in Lui la persona coincide con la missione e la missione è l’Incarnazione».

L’ESEMPIO DI GESU’

L’esempio più eclatante è quello di Gesù, che della sua vita ha fatto una missione per tutti gli uomini.

Ogni cristiano dovrebbe comprendere tutto questo attraverso il mistero di Gesù. «Se Gesù mi chiama a coinvolgermi con Lui e io rispondo, allora cambio, cresco: ecco il nesso tra vocazione e conversione».

LA POTENZA DELLA FEDE

E’ qui che subentra la fede. Una nuova tappa verso il superamento del senso di finitudine è la riscoperta dell’autentica fede. «La fede è sempre un dono, tanto è vero che nasce sempre da un incontro. In forza di che cosa gli uomini della nostra generazione sono stati battezzati due o tre giorni dopo la nascita? In forza della fede dei loro genitori, del rapporto buono con i loro genitori. Un rapporto che i nostri genitori non sentivano compiuto prima di portare il figlio all’incontro con Gesù, cioè al battesimo».

DONO DI GRAZIA

La fede, dice ancora Scola, «è un dono di grazia perché non nasce al di fuori di un rapporto, uno non se la dà da sé. Quando però questo incontro si produce, siccome è della realtà profonda che si tratta – perché Gesù è il fondamento della realtà – è la realtà profonda che mi interpella e domanda la mia risposta. Ed è qui che allora scatta l’elemento della libertà».

ORDINE ALL’ESISTENZA

I Salmi insistono costantemente su questo bisogno di rispondere all’iniziativa di Dio «nonostante tutti i nostri peccati, i nostri limiti, rinnovando l’energia di un’adesione. In questa luce la vita viene giudicata in tutti i suoi aspetti, negli affetti, nel lavoro, nel riposo, nell’assunzione delle proprie fragilità, sia fisiche che, soprattutto, morali, nel riconoscimento del proprio male. La vita viene affrontata in tutti i suoi aspetti secondo un principio di ordine». La fede, evidenzia il cardinale, «dà ordine alla mia esistenza».

I DISCEPOLI E IL GOLGOTA

Attraverso la fede si coglie l’essenza profonda di un segno “strategico” per portarci al di fuori della “paura di finitudine”. Che è la Passione e la Resurrezione di Cristo. «Come si spiega il fatto che i Dodici, dopo la tragedia del Golgota, si chiudano terrorizzati nel cenacolo, spaventatissimi, come dominati da un fallimento radicale che stava mettendo a repentaglio oltre alla vita del Maestro amato, anche la loro vita, e poi, improvvisamente, come i testi documentano in maniera inoppugnabile (e nessun esegeta serio può negare questo dato), escano in pubblico, annuncino Gesù e diano tutti la vita per Lui? Perché questo cambiamento? Perché L’hanno rivisto risorto! Non L’avessero rivisto risorto, non avrebbero trovato l’energia di spendersi fino in fondo in questi termini».

“PASSARE ATTRAVERSO LA NOSTRA PASSIONE”

Questo, secondo il cardinale, «è il segno che racchiude tutti i segni.

Detto questo, è del tutto logico e naturale che Gesù, risorgendo, entri nella dimensione definitiva della vita». Per entrare nella dimensione definitiva del nostro essere, «dobbiamo passare attraverso la nostra personale morte, che non possiamo dominare prima di passarci dentro».

ACCOGLIERE LA SOFFERENZA

Ecco perché bisogna documentare a tutti gli uomini la bellezza e la potenza dell’amore che Gesù ha insegnato e bisogna condividere in profondità ogni tipo di sofferenza. Siamo chiamati a perdonare, sottolinea Scola, per quanto ne siamo capaci, persino i nostri nemici e ad amarli, ci dice Gesù. «L’ho potuto constatare incontrando gli ammalati più gravi nelle loro case: nell’esperienza della fede, che è sempre anche un’esperienza di amore – che loro vivono soprattutto nella consolazione della preghiera alla Vergine, nell’offerta delle proprie fatiche e nell’esperienza della condivisione dei loro cari – è come se la sofferenza, il dolore e la prospettiva della morte assumessero una funzione positiva, facendo venire a galla il valore profondo della vita e del destino. Si attua veramente quello che, con parole terribili, dice il Salmo: «l’uomo, nella prosperità, non comprende, è come gli animali che periscono»(Sal 49,13).

MISTERO DA CONDIVIDERE

Allora per abbattere la paura di finitudine bisogna calarsi nella fede, incrociare il mistero della Resurrezione di Cristo perché questo ci consente di approcciarci nel momento della sofferenza con un atteggiamento diverso, positivo. Ecco perché, conclude Scola, «il mistero del male, che resta un mistero, va quindi condiviso».

Solo in questo modo potremmo davvero essere capaci di infinito.

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