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“Non ce la faccio…”: il lamento di un uomo che deve assistere il prossimo

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Russell Shaw - pubblicato il 11/08/16

Un'esortazione maschile a risolvere l'insolvibile diventa un confronto con la Croce

Scrivendo per For Her di Aleteia, Catherine Kauder ha offerto nove suggerimenti su cosa può fare chi si prende cura di qualcuno per prendersi una pausa da un lavoro estremamente esigente che mette alla prova la forza fisica, emotiva e spirituale. Le sue idee sono pratiche e utili, e vanno al punto.

C’è solo un appunto da fare: le proposte della Kauder, come ci si aspetterebbe in un articolo scritto per le donne, sono rivolte a queste ultime, ma il 44% dei 54 milioni di americani che assistono familiari o amici anziani, disabili o malati cronici è costituito da uomini.

Io sono uno di loro.

Gran parte di quello che dice la Kauder – pregare, meditare o leggere per dare un attimo di tregua alla propria mente, accettare offerte da parte di amici e vicini per fare commissioni o dare una mano in altro modo, fare un po’ di esercizio e così via – va bene per entrambi i sessi, ma qui come in altre aree della vita bisogna anche riconoscere le reali differenze tra i sessi.

Una differenza che riguarda gli assistenti uomini risiede nel fatto che per formazione o geni gli uomini tendono a risolvere i problemi. Ciò non vuol dire che non lo facciano anche le donne – ovviamente lo fanno. La differenza riguarda l’approccio, la metodologia.

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Gli uomini tendono ad essere analitici, le donne ad essere intuitive. Non è una questione di o/o – la maggior parte delle persone sono un misto di entrambe le cose –, ma negli uomini l’enfasi va sull’analisi dei problemi per risolverli, mentre le donne, dopo il discernimento di un problema, probabilmente intuiscono cosa bisogna fare. Non è che un approccio sia giusto e l’altro sbagliato. Come in molti altri campi, anche in questo la regola è la complementarietà.

Penso che entriamo in acque profonde quando consideriamo l’istinto a risolvere le cose.

Qualche anno fa, mentre mi preparavo a scrivere un libro sulla sofferenza e il problema del male, Does Suffering Make Sense?, tra i tanti libri che ho letto ce n’erano due dell’apologeta cristiano C.S. Lewis: The Problem of Pain e A Grief Observed.

The Problem of Pain non mi è piaciuto, anche se non dubito che molti lettori lo abbiano trovato utile. Per me è troppo scontato. Lewis assolve Dio per il fatto che gli esseri umani soffrano molto; organizza le sue argomentazioni in modo ordinato e logico, e sembra quasi di sentirlo dire: “Ho espresso il mio punto di vista, per cui smetti di lamentarti”.

A Grief Observed è molto diverso. È scritto sotto forma di un diario tenuto da Lewis dopo la morte della moglie Joy, che ha sposato piuttosto tardi, ha amato profondamente e di cui sentiva intensamente la mancanza. Qui non ci sono risposte scontate. L’autore vuole dire al mondo che il suo dolore è lacerante, e non solo questo – questo devoto cristiano non esita a rimproverare Dio. Alla fine del libro raggiunge una sorta di risoluzione esitante, ma il dolore non è affatto scomparso.

The Problem of Pain è un libro analitico, scritto in modo competente ma alla fin fine non molto persuasivo, mentre A Grief Observed è un resoconto dolorosamente veritiero scritto da un uomo che soffre profondamente e alla fine lotta ancora per trovare una risposta alla domanda: “Perché?”

È la stessa domanda con cui molte persone che si prendono cura di altre – e sicuramente gli uomini tra loro – lottano giorno dopo giorno: Perché io? Perché noi? Perché Dio ha permesso che succedesse questo?

La risposta, nella misura in cui esiste, dev’essere in parte analitica e in parte intuitiva.

Analitica nel senso che si arriva a vedere quale sia il problema e a definire la domanda – Perché? – in termini ragionevolmente chiari.

Intuitiva perché la risposta, inevitabilmente provvisoria e incompleta, può non essere facile da accettare per gli uomini che si prendono cura di altre persone. Di recente mi sono imbattuto in un passo di Santa Caterina da Siena che esprime questa idea nel modo migliore che abbia mai trovato:

“Tutto ciò che esiste deriva da Dio. Niente di quello che ci accade – problemi, tentazioni, ferite, tormenti, calunnie o qualsiasi altra cosa che possa capitarci – può quindi disturbarci o lo farà. Piuttosto, siamo felici e teniamo in considerazione queste cose, riflettendo sul fatto che derivano da Dio e ci vengono date come favori, non per odio ma per amore”.

In uno splendido documento che San Giovanni Paolo II ha pubblicato nel 1984 (Salvifici Doloris – Sul senso cristiano della sofferenza umana) e che ho usato come punto di partenza per il mio libro sulla sofferenza, il papa offriva un’estesa meditazione su un passo tratto dalla lettera di San Paolo ai Colossesi: “Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (1, 24). Il significato della sofferenza umana si può ritrovare nella sofferenza come partecipazione alla Passione di Cristo.

Nel caso in cui ve lo steste domandando, sto ancora lavorando su quella risposta – a livello analitico e intuitivo.

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Russell Shawè autore o coautore di 21 libri e di numerosi articoli e recensioni. È membro del corpo docente della Pontificia Università della Santa Croce di Roma ed ex segretario per gli Affari Pubblici della Conferenza dei Vescovi Cattolici degli Stati Uniti.

[Traduzione dall’inglese a cura di Roberta Sciamplicotti]

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