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I preti possono negare la comunione ai politici pro-aborto?

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© Jeffrey Bruno / Aleteia

Jenna M. Cooper - pubblicato il 10/08/16

Il diritto canonico lascia libertà al discernimento pastorale

Nelle notizie che circolano durante i periodi elettorali si incontrano spesso polemiche mediatiche sul negare la comunione ai politici cattolici che appoggiano posizioni pro-aborto. A seconda della fonte, la notizie viene spesso presentata come una mossa audace da parte di crociate vescovili oppure come un superamento dei confini pastorali. Ma, come al solito, la verità è meno sensazionale e più sfumata.

Possiamo cominciare ricordando come, sin dai tempi degli Apostoli, la Chiesa ha sempre insegnato l’importanza di ricevere la Comunione degnamente. In altri termini, coloro che sono in stato di peccato mortale non dovrebbero ricevere Gesù, dato che Egli è presente nel Santissimo Sacramento, in quanto ciò potrebbe portare a commettere il peccato aggiuntivo di sacrilegio e a mettere in pericolo ancora di più le loro anime. Questo insegnamento è parte del nostro attuale Codice di Diritto Canonico, nel canone 916.


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Un aspetto degno di nota del canone 916 è che mette in evidenza l’onere di ricevere degnamente la Santa Comunione, così come impone ai cattolici coscienti di peccato mortale inconfessato di non avvicinarsi all’Eucaristia di propria iniziativa. In altre parole, un cattolico che è consapevole di un peccato mortale relativamente nascosto porta la responsabilità personale del comportarsi in modo appropriato per quanto riguarda il ricevere Gesù nell’Eucaristia. Il canone 916 evidenzia che i ministri della Chiesa non sono generalmente in grado di “leggere le anime”, o di dare giudizi esteriori sullo stato spirituale intimo di qualcun altro. In tal modo, il canone 916 riconosce quindi che come cattolici abbiamo un diritto fondamentale ai sacramenti, alla privacy e alla nostra buona reputazione.

Tuttavia, la situazione è diversa quando un cattolico, per dirlo con le parole del immediatamente precedente canone 915, “ostinatamente persevera in peccato gravemanifesto”. Cioè, quando un cattolico consapevolmente e deliberatamente persiste in uno stato o un’azione gravemente peccaminosa che è esteriormente molto evidente e pubblica, il diritto canonico impone ai pastori il dovere e l’obbligo di trattenere la Santa Comunione.

Il diritto canonico non ci dà un elenco dettagliato delle situazioni concrete specifiche che rientrerebbero nel canone 915. Ma un esempio noto di un caso in cui la Comunione andrebbe negata in accordo con il canone 915 sono le situazioni matrimoniali irregolari, dal momento che una coppia in uno stato matrimoniale irregolare vive in una condizione di peccato oggettiva (come lo sono tecnicamente i conviventi o coloro che vivono nell’adulterio), in un modo che è visibilmente ovvia e di conoscenza comune (il matrimonio è per sua natura una condizione totalmente pubblica). Ma ci sono anche altre situazioni che potrebbero rientrare nel canone 915. Per dare un esempio più estremo, un cattolico che fa regolarmente volontariato in una clinica per aborti sarebbe quasi certamente “ostinatamente perseverando in un peccato grave manifesto”.


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Per estensione di tale ultimo esempio, sarebbe opportuno concludere che i candidati per una carica politica che hanno posizioni a favore del “diritto all’aborto” rientrerebbero parimenti nell’ambito del canone 915. Facilitare intenzionalmente l’aborto in qualsiasi modo, forma o condizione è senza dubbio un grave peccato; e promuovere una legislazione “pro-choice” è consentire la pratica dell’aborto in un modo particolarmente noto al punto di essere di dominio pubblico. Inoltre, i politici che una fanno campagna elettorale incentrata esplicitamente sull’aborto si impegnano nella promozione della malvagità di questa pratica in un modo coerente, “perseverante”.

Anche se si potrebbe essere tentati di vedere il canone 915 come una sorta di contrasto punitivo al più concessivo canone 916, sarebbe molto più appropriato considerare questi canoni come due facce della stessa medaglia. I canoni 915 e 916 potrebbero anche essere considerati “strati” sovrapposti della teologia sacramentale della Chiesa. Per esempio, un individuo a cui viene negata la Comunione per via del canone 915 si sarebbe già dovuto astenere, di sua spontanea volontà, dall’Eucaristia, in obbedienza al canone 916.

In pratica, i vescovi e i pastori sono chiamati prima ad ammonire e correggere privatamente qualsiasi politico cattolico palesemente pro aborto che abbia residenza nella loro diocesi. Naturalmente, l’obiettivo finale di questo dialogo pastorale sarebbe quello di condurre il politico in questione ad una conversione morale. Ma a prescindere da questa prospettiva, che è la migliore delle ipotesi, si spera che questo tipo di conversazione sia almeno sufficiente a guidare il politico all’astensione volontaria dall’Eucaristia, evitando così l’imbarazzo di essere coinvolto in un vero e proprio diniego della Santa Comunione.

Eppure potrebbe accadere che un politico cattolico pro aborto continui ad insistere per ottenere la Santa Comunione anche dopo che la peccaminosità della sua situazione gli sia stata correttamente spiegata. Se un pastore si rende conto che la situazione particolare del politico effettivamente soddisfa i criteri di cui al canone 915, il parroco sarebbe obbligato dalla legge (che è prescritta dalla Chiesa sempre per la salvezza delle anime) a negare la Santa Comunione a quell’individuo, al fine di preservare il Santissimo Sacramento, evitare lo scandalo e proteggere l’anima dell’aspirante comunicante.

[Traduzione dall’inglese a cura di Valerio Evangelista]

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