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Per favore, non accettarmi come sono

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bikeriderlondon/Shutterstock

Arleen Spenceley - pubblicato il 02/08/16

Porteremmo avanti bene un rapporto se non ci cambiasse e non influisse sulla nostra vita?

Un giorno guarderò negli occhi il mio futuro marito e gli dirò: “Per favore, non accettarmi come sono”. Ho dovuto compiere 30 anni prima di stabilire che avrei fatto questo, e Timothy Keller mi ha aiutata a prendere questa decisione.

Nel suo libro The Meaning of Marriage, Keller analizza la tendenza prevalente a resistere ai rapporti con le persone che non ci accettano per come siamo e il cui coinvolgimento con noi cambierebbe le abitudini che abbiamo acquisito prima di incontrarci.

Si cerca allora un coniuge che non si limiti a sceglierci e ad amarci per come siamo, ma il cui rapporto con noi non ci cambi, il che ha poco senso per noi che siamo cattolici, perché crediamo che il matrimonio, come tutte le vocazioni, debba cambiarci – alla fine dovremmo essere più santi di quello che eravamo all’inizio, per via della grazia e dell’altro. Dovremmo impegnarci a rendere l’altro santo, non a mantenere il reciproco status quo.

Quanto spesso, però, cerchiamo persone la cui compagnia non ci richiede nulla, che non fanno osservazioni negative su di noi, che non parlano di necessità non soddisfatte, la cui associazione con noi non produce alcun conflitto? È la ricerca di qualcuno che si adatterà completamente al nostro modus operandi – un uomo o una donna che, pur se inserito nella routine di qualcun altro, non la altera e non la interrompe.

Ma porteremmo avanti rapporti sani se non influissero sulla nostra vita? Siamo onesti con noi stessi, su noi stessi, quando diciamo che i rapporti non dovrebbero “sconvolgerci”?

Come se il “come sono” dovesse essere per sempre – come se il “come sono attualmente” sia il massimo del sano, dell’amorevole e del santo che posso raggiungere.

È così? Il “come sei oggi”, in ogni modo, è davvero come dovresti essere per sempre?

Ovviamente no. La nostra Chiesa non ci insegna questo. Non credo che valga per me, e voi (spero) non lo credete riguardo a voi. E non lo crede neanche Keller, che scrive:

Dentro di voi sapete di non essere perfetti, che ci sono moltissime cose che vi riguardano che devono cambiare e che chiunque arrivi a conoscervi da vicino e in modo personale vorrà cambiare.

E questo è doloroso, aggiunge, e spesso non ci sta bene. Ma consideriamo un altro aspetto importante sottolineato da Keller:

Quanto sarebbe diversa la ricerca di un coniuge se vedessimo il matrimonio come un mezzo perché gli sposi si aiutino a vicenda a diventare il loro glorioso futuro ‘io’… E se iniziaste il vostro matrimonio comprendendo il suo obiettivo come amicizia spirituale per il viaggio verso la nuova creazione? E se vi aspettaste che il matrimonio riguardi il fatto di aiutarvi a vicenda ad abbandonare i vostri peccati e le vostre mancanze per optare per un nuovo ‘io’ che Dio sta creando?

Daremmo il benvenuto al fatto che un rapporto possa cambiarci, e ci aspetterammo di cambiare come risultato di ciò. Non riguarda il fatto di chiedere a qualcuno di cambiare per poter scegliere di uscirci o di sposarlo/a, né di scegliere persone i cui valori non si allineano con i nostri perché crediamo di poterle cambiare. Riguarda il fatto di permetterci di venire cambiati in meglio – come dovremmo fare – perché ci scegliamo saggiamente a vicenda.

Accoglieremmo con favore la “scomodità” di un rapporto, e ci adatteremmo come serve, per via l’uno dell’altro, nonostante il disagio del fatto di adattarci. Se cerchiamo un “altro significativo” le cui interazioni con noi non ci richiedono aggiustamenti o scomodità, non stiamo amando ma usando. Non cerchiamo qualcuno che ci ami, ma uno scudo umano che si erga tra noi e le conseguenze del nostro comportamento, che ci rubi le opportunità di crescita e santificazione.

Riconosceremmo che gli sconvolgimenti e il disagio valgono la pena.
Abbracceremmo l’idea che la compagnia della persona amata richieda qualcosa da noi, piuttosto che cercare sempre qualcuno la cui compagnia non richiede niente. Ammetteremmo che la ricerca di un coniuge la cui presenza non ci sfida a trascendere il nostro status quo è per il matrimonio quello che la contraccezione è per il sesso: un impedimento a una parte fondamentale del suo obiettivo.

Scrive Keller:

In questa visione cristiana del matrimonio è questo che significa innamorarsi. È guardare l’altra persona e cogliere un barlume di quello che Dio sta creando, e dire: “Vedo cosa Dio sta creando con te, e mi piace! Voglio farne parte. Voglio essere partner tuo e di Dio nel viaggio che stai compiendo verso il suo trono”. E quando ci arriviamo, guarderò alla tua magnificenza e dirò: “Ho sempre saputo che potevi essere così. Ne ho colto dei barlumi sulla terra, ma ora guardati!” Cosa che nessuno arriverà a dirci un giorno se prima non ci diciamo a vicenda queste parole: “Per favore, non accettarmi come sono”.

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Arleen Spenceley è autrice di Chastity Is for Lovers: Single, Happy and (Still) a Virgin. Scrive per il Tampa Bay Times e ha conseguito un baccalaureato in Giornalismo e un master in Counseling, entrambi presso l’Università della Florida del Sud. Ha un blog su arleenspenceley.com

[Traduzione dall’inglese a cura di Roberta Sciamplicotti]

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