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Rilassati! C’è un unico proprietario e non sei tu!

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padre Gaetano Piccolo - Rigantur Mentes - pubblicato il 30/07/16

Uno della folla gli disse: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede».

Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: «Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così – disse -: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!». Ma Dio gli disse: «Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?». Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio». (Lc 12,13-21)

E la tragedia di un tale mondo è che,

per mantenere e sviluppare il mostro di un’economia usuraia,

si dovrà necessariamente tendere a fare

di tutti gli uomini dei consumatori.

J. Maritain

Sono entrato in noviziato a dicembre, quando le attività erano già iniziate. Mi sono ritrovato un po’ spaesato. Non avevo una grande conoscenza della spiritualità dei gesuiti. Ero un giovane timido, che il giorno dopo la laurea aveva preso il treno da Napoli per arrivare a Genova.

Il noviziato è un tempo di conoscenza, ma anche di prova: si viene provati per capire se quella vita da gesuita è adatta al candidato. A gennaio iniziava il mese di Esercizi spirituali, un lungo tempo di silenzio e di preghiera. Non ricordo molto di quelle settimane, l’unica cosa che però mi è rimasta impressa e mi ha tormentato per diversi anni fu l’ultima contemplazione che ci venne proposta. Ci veniva chiesto di fare nostra la preghiera suggerita da sant’Ignazio alla fine del libretto degliEsercizi:

«Prendi, o Signore, e accetta tutta la mia libertà, la mia memoria, il mio intelletto, la mia volontà, tutto quello che ho e possiedo. Tu me lo hai dato; a te, Signore, lo ridono. Tutto è tuo: tutto disponi secondo la tua piena volontà. Dammi il tuo amore e la tua grazia, e questo solo mi basta».

Ricordo che davanti a questa preghiera mi ritrovai completamente bloccato. Non potevo pensare che dopo aver lasciato tutto, il Signore arrivasse a chiedermi anche la memoria, con il rischio di non ricordare più chi ero; persino l’intelletto, l’unica arma che mi ero tenuto e con cui ero arrivato dai gesuiti. Mi sentivo imbarazzato davanti alla grande disponibilità mostrata dagli altri novizi che condividevano nelle preghiere durante la Messa il loro entusiasmo nel donare tutto a Dio.

Sono andato avanti, custodendo nel cuore quell’imbarazzo, quel senso di inferiorità e di limite, quella percezione di dare tanto, ma non tutto. C’erano delle cose a cui proprio non potevo rinunciare.

Dopo molti anni – addirittura alcuni anni dopo l’ordinazione sacerdotale – la nostra formazione come gesuiti prevede un periodo in cui riprendere le esperienze del noviziato per rileggere tutto il percorso vissuto come giovani gesuiti. Quel periodo prevede anche di nuovo il mese di Esercizi spirituali. Ricordando ancora quanto era avvenuto molti anni prima, ero preso da una certa angoscia e mi preparavo a rivivere quel senso di imbarazzo e di limite.

Questa volta, però, la vita, il tempo e soprattutto l’amore di Dio hanno gettato su quella preghiera una luce diversa. Mi sono reso conto che quanto mi veniva chiesto non era né un atto di generosità né un atto di rinuncia. Non era un atto di generosità perché si trattava di ridare al Signore qualcosa che non mi apparteneva, ma che lui stesso mi aveva donato, cose che non avevo conquistato, ma che mi ero ritrovato.

Ma non si trattava neppure di una rinuncia, non si trattava di rinunciare a ciò che Dio mi aveva dato, si trattava piuttosto di metterlo nelle sue mani, di fare un investimento, di valorizzarlo, si trattava di mettere a disposizione di Dio quello che avevo, del resto Dio sa certamente meglio di me come utilizzare bene ciò che ho.

Se abbiamo il coraggio di aprire gli occhi, infatti, proprio come avviene al protagonista di questo brano del Vangelo, ci renderemo conto che in realtà noi non possediamo nulla: tutto ci è stato dato e tutto ci può essere tolto in qualunque momento, il corpo, le relazioni, il ruolo sociale, la vocazione e ovviamente la vita.

Che cosa possiamo considerare come nostro? Passiamo la vita illudendoci di essere proprietari, attaccandoci alle cose come se fossero un nostro possesso, senza renderci conto che in realtà siamo dentro una corrente d’amore, in cui continuiamo a ricevere, attimo dopo attimo, senza diventare mai proprietari di nulla. Tutto ci è dato perché continui a fluire e a trasformarsi in amore.

Ci illudiamo di costruire granai, ci allarghiamo, diventiamo bulimici senza essere mai sazi. Siamo presi dall’illusione di possedere, ma continuamente la vita ci invita a riflettere sulla nostra povertà. Non si tratta infatti di sforzarci di essere poveri, ma di prendere atto che lo siamo realmente, perché non possediamo nulla. Non c’è nulla che possiamo trattenere.

Donne-che-passano-al-setaccio-il-grano-di-Gustave-Courbet

E non a caso questo è stato il primo peccato: Adamo ed Eva vogliono impadronirsi del frutto, vogliono diventare padroni del giardino, e in questo modo contraddicono quello che sono. L’uomo e la donna sono coloro che ricevono i doni, generosamente e gratuitamente, dalla vita, ma non diventano mai proprietari.

Abbiamo infatti un’idea distorta del dono. Noi occidentali pensiamo che quanto ci è donato, ci appartenga. Forse tra noi funziona così, perché abbiamo deciso per convenzione sociale che sia così, ma con Dio funziona diversamente: non diventiamo mai proprietari di quello che Dio ci dona. Possiamo anche non crederci o non accettarlo, ma sarà la vita che ci metterà inevitabilmente davanti alla nostra mancanza di possesso.

La vita è una corrente d’amore da abitare. Il peccato infatti è proprio bloccare questa corrente d’amore, trattenere per sé, impedire che giunga ad altri, impedire a Dio di fare di questo dono ciò che vuole. Il peccato è costruire granai in cui rinchiudere il proprio grano piuttosto che lasciare che Dio se ne serva per sfamare non solo me, ma anche altri.

Non mi trattenere, dirà Gesù a Maria di Magdala: io sono il dono venuto dal Padre e che ritorna al Padre. Gesù è il dono per eccellenza, colui che abita il mio cuore, senza poter essere trattenuto. Non ne divento padrone. Gesù è l’alfa e l’omega, l’inizio e la fine, colui che, venuto dal Padre, al Padre ritorna. E del resto, ogni volta che celebriamo l’Eucaristia, viviamo questa stessa dinamica: i doni ricevuti dal Padre, vengono ridonati a lui, perché li trasformi e li doni ancora, per la vita di tutti.

Non possiamo che aprire gli occhi, liberarci dall’illusione di dover ammassare, e scoprire la realtà di questa corrente d’amore che possiamo abitare.

Leggersi dentro

–          Anch’io sono preso dalla tentazione di ammassare e trattenere per me?

–          Come posso rimettere in circolo il bene che ricevo?

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