Il silenzio del Papa, ammutolito e quasi impietrito di fronte alle lapidi che ricordano i caduti di Auschwitz-Birkenau, è rotto soltanto dal pianto improvviso e quasi liberante di un neonato. Silenzio e pianto interiore sono le espressioni che Francesco ha scelto per onorare le vittime della Shoah nel luogo in cui lo sterminio ha assunto proporzioni barbaramente industriali. «Voglio entrare da solo e stare in silenzio» aveva chiesto ai collaboratori. Non ci sono parole che possano esprimere lo stato d’animo che si prova entrando nel luogo in cui il male nell’uomo ha raggiunto l’abisso.
Per questo Francesco ha voluto varcare come un pellegrino solitario l’ingresso di Auschwitz sormontato dalla scritta «Arbeit macht frei», il lavoro rende liberi. Attraversata la soglia, si entra come in un’altra dimensione. Anche se si è in gruppo, ci si sente soli. Impotenti. Il Papa si siede su una panchina tra due alberi, nella piazza dell’Appello, dove i prigionieri venivano impiccati. Qui padre Massimiliano Kolbe, esattamente 75 anni fa, ha offerto la vita per salvare quella di un altro prigioniero, padre di famiglia. Una goccia di speranza nell’oceano del male. Per quindici minuti Francesco rimane assorto in preghiera, con le mani intrecciate e il filo spinato sullo sfondo, a fare da cornice. Quando si alza, va a baciare un palo di legno usato come patibolo.
Nel Blocco 11 saluta dodici superstiti, tre dei quali centenari. Tra questi c’è Helena Dunicsz, violinista polacca nata a Vienna, l’unica sopravvissuta dell’orchestra del campo di concentramento. Il Papa stringe loro la mano e li abbraccia. Uno di loro gli chiede di firmare un album di foto. L’ultimo gli consegna una candela con la quale Bergoglio ha camminato verso il «muro della morte», là dove le vittime venivano uccise con un colpo alla testa. Lo tocca, rimanendo immobile a lungo, quasi cercando un contatto con la sofferenza, il dolore, il sangue di cui è intriso. Sempre in silenzio, scende nel sotterraneo per sostare muto nella cella di Kolbe, fissando i graffiti incisi sul muro, tra i quali spicca una grande croce.
Uscito da Auschwitz, Francesco percorre i tre chilometri che lo separano da Birkenau, il vero luogo della Shoah. Si ferma sotto la torretta d’ingresso, attraversata dal binario della morte, via senza ritorno per più di un milione di uomini, donne e bambini innocenti. Per la maggioranza ebrei. Quindi avanza contemplando le baracche di mattoni rossi, i resti delle camere a gas e dei forni crematori. Davanti alle lapidi del monumento alle vittime delle nazioni, con il capo chino, prega nuovamente. L’unica voce che si leva è quella del rabbino capo di Polonia, che canta in ebraico il salmo 130, il «De profundis». Un migliaio di persone assistono a questo momento finale. Nessuno fiata. Solo un bimbo di pochi mesi, tenuto in braccio dal papà, sfida l’assordante silenzio. Sul libro d’Onore Francesco scrive in spagnolo: «Signore abbi pietà del tuo popolo! Signore perdono per tanta crudeltà!». Abbi pietà. Non ci sono altre parole.
Quello che forse avrebbe voluto dire, Bergoglio lo comunica nel pomeriggio al milione di giovani presenti alla Via Crucis nel parco Blonia di Cracovia: «Dov’è Dio, se nel mondo c’è il male, se ci sono uomini affamati, assetati, senzatetto, profughi, rifugiati? Dov’è Dio, quando persone innocenti muoiono a causa della violenza, del terrorismo, delle guerre? Dov’è Dio, quando malattie spietate rompono legami di vita e di affetto? O quando i bambini vengono sfruttati, umiliati, e anch’essi soffrono a causa di gravi patologie?». Domande «per le quali non ci sono risposte umane». Possiamo – conclude – «solo guardare a Gesù», il Dio che si è annientato soffrendo sulla croce.
Al termine della Via Crucis, affacciato dalla finestra dell’arcivescovado, Francesco ha rivolto un messaggio ai giovani: «Non vorrei amareggiarvi ma devo dire la verità: si tortura anche oggi, la crudeltà non è finita con Auschwitz e Birkenau».
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Questo articolo è stato pubblicato sull’edizione odierna del quotidiano La Stampa