E’ la giornata del silenzio e della preghiera. Papa Francesco procede lentamente, da solo, attraversando il famoso arco con la scritta: “Il lavoro rende liberi”. Percorre un po’ di strada a bordo di una vettura elettrica, poi – seduto su una panchina tra gli alberi – prega muto nella piazza dell’Appello, luogo dell’impiccagione dei prigionieri, dove san Massimiliano Kolbe ha offerto la sua vita per un altro prigioniero, un gesto di amore nel luogo della barbarie e della disumanità. Mani giunte, a tratti anche con il capo chino e gli occhi chiusi, Francesco ha pregato da solo in silenzio per diversi minuti.
Bergoglio, terzo Pontefice a varcare le porte di Auschwitz e Birkenau, i campi di concentramento dove vennero sterminati più di un milione di ebrei, ha scelto di non pronunciare discorsi. Perché il silenzio è la più alta forma di rispetto per le vittime. Quello che aveva da dire sull’immane tragedia della Shoah, Francesco lo aveva detto allo Yad Vashem, a Gerusalemme, e nel dialogo con l’amico rabbino Abraham Skorka: “La Shoah è un genocidio come gli altri genocidi del XX secolo, ma ha una particolarità. Non intendo dire che è di primaria importanza mentre gli altri sono di secondaria importanza, ma c’è una particolarità, una costruzione idolatrica contro il popolo ebreo. La razza pura e l’essere superiore sono gli idoli sulla cui base si costituì il nazismo. Non è solo un problema geopolitico, ma esiste anche una questione religiosa e culturale. E ogni ebreo che veniva ucciso era uno schiaffo al Dio vivo in nome degli idoli”.
Nel luogo del massacro, ogni parola sarebbe risultata riduttiva. Il Papa è stato accolto dalla premier Beata Maria Szydlo. Nel Blocco 11 incontra personalmente undici superstiti, l’ultimo dei quali gli consegna una candela con la quale Francesco accende una lampada come dono al campo. La lampada, con stemma in argento dorato, è costituita da una base in legno di noce tornito, che si ispira al reticolato del campo di concentramento, ormai eroso dal tempo, quale rappresentazione del potere che arriva a teorizzare la supremazia sull’uomo e sulla natura.
Tre dei superstiti hanno più di cento anni. Allo Yad Vashem, Francesco aveva baciato la mano dei sopravvissuti, ora qui ad Auschtwiz, all’interno del Blocco 11, li abbraccia uno ad uno, dopo aver stretto la mano a ciascuno. C’è chi gli mostra delle foto e chiede una sua firma per ricordo. E c’è anche chi per salutarlo gli bacia la mano.
La seconda tappa, sempre ad Auschwitz, è la visita e la preghiera nella cella dove morì Kolbe, conventuale francescano polacco.
Nella cella della fame, illuminata da una piccola finestra sbarrata, Francesco si siede da solo, nella penombra. E prega in silenzio. Sui muri ci sono i graffiti, tra i quali una croce. Padre Kolbe, al medico che gli iniettava l’acido fenico per accelerare la morte, aveva detto: “Lei non ha capito nulla della vita. L’odio non serve a nulla, solo l’amore crea”.
Quindi Francesco si è spostato a Birkenau, il vero luogo simbolo della Shoah, entrando dall’ingresso principale e procedendo parallelamente alla ferrovia, lungo quel binario che portava alla morte.