di Giovanni Fighera
Nato a Belfast nel 1898 e morto ad Oxford nel 1963, professore universitario e scrittore, Clive Staples Lewis è noto al grande pubblico principalmente per le Cronache di Narnia, una delle saghe per l’infanzia più venduta di sempre, pubblicata tra il 1950 e il 1956 in sette tomi. La notorietà di Lewis assume, però, dimensioni internazionali già una decina di anni prima, grazie alla pubblicazione de Le lettere di Berlicche, opera davvero geniale.
Lewis inventa l’espediente di un colloquio epistolare tra demoni, lo zio Berlicche e il nipote Malacoda. Lo zio vuole educare il nipote a tentare gli umani, gli insegna i trucchi e l’arte segreta del mestiere, le vie subdole per indirizzare l’uomo sulla via del male, distogliendolo lentamente dalla strada della verità. Oltre che apprezzabile per arguzia e ironia, l’opera appare come un’utilissima palestra per allenarsi a riconoscere la tentazione. Nella quotidianità facciamo costantemente esperienza di come spesso ci si presentino scelte non buone e maliziose sotto l’apparenza del bene e dell’innocenza. Il male che si nasconde sotto le parvenze del bene si chiama tentazione.
Nel Padre nostro noi chiediamo a Dio di tenerci lontano dalla tentazione ovvero di farcela riconoscere come tale e, quindi, di togliere la patina mendace che ricopre il male e ci impedisce di riconoscerlo come tale. Lewis evidenzia già fin dall’inizio che «vi sono due errori, uguali e opposti, nei quali la nostra razza può cadere nei riguardi dei diavoli. Uno è il non credere alla loro esistenza. L’altro di credervi e di sentire per essi un interesse eccessivo e non sano. I diavoli sono contenti d’ambedue gli errori e salutano con la stessa gioia il materialista e il mago».
Percorrendo le pagine in cui lo zio tenta di educare il nipote a corrompere l’uomo, scopriamo che il diavolo vuole allontanare gli esseri umani dal gusto di vivere portandolo a denigrare la dimensione allegra della vita e il riso. Anche trascurare i piaceri veri, quelli che davvero hanno a che fare con la persona in nome dei piaceri che vanno più di moda, è un espediente adottato dal diavolo perché l’uomo non vada verso Dio, dal momento che l’uomo è portato verso Dio proprio dalle sue vere passioni e dai suoi talenti. Scrive lo zio diavolo Berlicche al nipote Malacoda:«Come non sei riuscito a capire che un piacere vero era l’ultima cosa che non avresti dovuto lasciargli incontrare? Come non hai previsto che avrebbe proprio annientato tutto l’inganno che tanto laboriosamente gli hai insegnato a valutare? E che quel genere di piacere che il libro e la passeggiata gli davano era il più pericoloso di tutti? Che gli avrebbe tolto tutta quella specie di crosta che eri riuscito a formargli sulla sua sensibilità, e fatto sentire che stava tornando a casa, che stava guarendo?».
Quest’uomo, che è chiamato dal diavolo con l’espressione “verme»” o “piccolo bruto”, non deve pensare a se stesso, deve essere distratto da ciò che ha più a cuore, dai suoi interessiin una sorta di divertissement o distrazione che lo allontana da sé, dalla realtà e da Dio. Malgrado i suggerimenti dell’esperto zio, il paziente di Malacoda diventa cristiano. Anche allora lo si può tentare utilmente facendogli pensare di avere la grazia per sempre e che essa non vada, invece, chiesta giorno per giorno, istante per istante, facendogli desiderare un’umiltà intesa non come dipendenza da Dio e dal Mistero, bensì come sottovalutazione e disprezzo dei propri talenti e delle proprie capacità.
Malacoda sarà di volta in volta spronato dallo zio a tentare il paziente con il desiderio di vivere nella prospettiva del futuro, slegato dal presente e dall’eternità, con la dimenticanza della propria precarietà e della propria miseria. Scrive Berlicche: «Gli esseri umani vivono nel tempo, ma il nostro Nemico (Dio) li destina all’eternità. Perciò, credo, Egli desidera che essi si occupino principalmente di due cose: della eternità stessa, e di quel punto del tempo che essi chiamano il presente. Il presente è infatti il punto nel quale il tempo tocca l’eternità. Del momento presente, e soltanto di esso, gli esseri umani hanno un’esperienza analoga all’esperienza che il nostro nemico ha della realtà intera; soltanto in esso viene loro offerta la libertà e la realtà».
A questo punto si potrà tentare il nuovo convertito inducendolo a non voler essere «unicamente cristiano», ma a perseguire «il cristianesimo e la crisi, il cristianesimo e la nuova psicologia, il cristianesimo e l’ordine nuovo, il cristianesimo e la ricerca psichica, il cristianesimo e il vegetarianesimo». Al proposito lo zio scrive ancora a Malacoda: «Se devono essere cristiani siano almeno cristiani con una differenza. Sostituisci alla fede qualche moda con una tinta cristiana». Questa è una riduzione del cristianesimo che lo stempera e, al contempo, ne annienta la potente forza rivoluzionaria in nome delle buone, accettabili e comprensibili mode del momento. Nell’ottica mondana e nella prospettiva dei due demoni del romanzo ciò che è incomprensibile è che si possa seguire un Altro per guadagnare completamente se stessi, che si possa davvero amare un altro in maniera disinteressata (ci deve pur essere un secondo fine nell’amore di Dio, nel cosiddetto amore disinteressato).
Il lettore trova piacere nel leggere quello che io definirei come un “manuale tascabile per riconoscere il pensiero del mondo e la tentazione”. Qual è la fine del paziente e dell’inesperto diavolo Malacoda? Riesce lo zio Berlicche ad istruire il nipote sulle modalità migliori per tentare gli umani? Dall’ultima lettera scopriamo che il paziente, morto durante un bombardamento, viene salvato e va in Paradiso. Il povero Malacoda andrà incontro a un destino terribile che si coglie nelle parole che lo zio gli indirizza nell’ultima lettera: «Mio caro, mio carissimo Malacoda, mio pupattolo, mio gattino, ti sbagli di grosso venendo piagnucoloso, ora che tutto è perduto, a chiedermi se i termini affettuosi che io ti indirizzavo non significavano nulla fin dall’inizio. Tutt’altro! Sta’ sicuro che il mio amore per te e il tuo amore per me sono simili come due piselli. Io ho sempre sentito un grande desiderio di te, come tu (sciocco, degno di compassione) hai desiderato me. La differenza consiste nel fatto che io sono il più forte. Penso che ora ti daranno a me; o mi daranno un pezzettino di te. Amarti? Ma sì! Non mi sono mai cibato di un bocconcino più squisito. Ti sei lasciato sfuggire dalle dita un’anima. L’urlo della fame resa più acuta per quella perdita riecheggia in questo momento per tutti i gironi nel regno del rumore giù giù fino al trono».
Berlicche riconosce che alla fine, una volta entrato in Paradiso, il paziente ha visto tutto chiaramente, senza alcuna incrostazione e dubbio: «Questo animale, questa cosa generata in un letto, poté posare il suo sguardo su di Lui. Ciò che per noi è fuoco accecante, soffocante, è per lui luce rinfrescante, è la stessa chiarità, e porta le forme d’un Uomo».