Ha chiesto l’elemosina sulla strada per poter mangiare. Ha vissuto la difficoltà di trovare un posto dove lavarsi o farsi prescrivere un medicinale. Ha trascorso la notte su una branda di un dormitorio pubblico. Tutte fatiche quotidiane nella vita di un senza fissa dimora; ma un po’ meno usuali se a compierle è il vescovo di una città. Ed è invece quanto ha vissuto per 36 ore mons. Donald Bolen, dal 2009 vescovo di Saskatoon in Canada e proprio lunedì scorso promosso da papa Francesco alla sede arcivescovile di Regina, nella stessa provincia del Saskatchewan.
Cinquantacinque anni, nativo di Gravelbourg, con alle spalle anche alcuni anni trascorsi in Vaticano come officiale del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, mons. Bolen a metà giugno ha aderito a un’iniziativa di sensibilizzazione sugli homeless promossa da un ente non profit locale, il Sanctum Care Group che si occupa di assistenza ai malati di Aids. Hanno coinvolto dieci personalità di Saskatoon: dal capo della comunità dei nativi al docente universitario, dal cantante folk all’ex poliziotto, fino appunto al vescovo (che peraltro fa parte del board del Sanctum Group). A tutti hanno chiesto loro di vivere in incognito per un giorno e mezzo sulla strada in una sorta di reality-show. Abiti di seconda mano, niente soldi in tasca, solo un cellulare con sé per poter essere costantemente geolocalizzati. Ciascuno con una serie di compiti da svolgere, per condensare davvero in quelle poche ore la vita concreta di un senza fissa dimora.
Poi – terminate le 36 ore – l’appuntamento a una cena di gala. Occasione per una raccolta fondi per un nuovo centro per la cura pre-natale dei figli di madri sieropositive; ma anche per ascoltare ciascuno dei partecipanti raccontare le proprie impressioni su quanto vissuto nelle ore precedenti. «La sensazione più forte – ha detto mons. Bolen – è stata sperimentare tutta la vulnerabilità delle situazioni in cui ci trovavamo. Nel quartiere in cui vivo ci sono tante situazioni di cui sapevo l’esistenza, ne avevo sentito parlare; ma lì ho avuto modo di toccarle con mano, di sperimentare la durezza e il dolore che ci sono a pochi passi da casa mia, come pure la gioia delle relazioni semplici tra le persone».
«Rallentare il passo ed essere presente davvero sulle strade del quartiere mi ha fatto capire tante cose – ha aggiunto -. Quando vai piano, quando diventi vulnerabile, quando la realtà ti porta ad affrontare ogni situazione e a metterti in relazione per cercare un dialogo, ci sono tante cose che poi ti porti a casa».
Una delle esperienze più forti per il vescovo Bolen è stata proprio sedersi con un cappello a chiedere l’elemosina in un angolo della Ventesima Strada, nel centro della città. «Ero insieme a Felix (il capo dei nativi ndr), siamo stati lì più di un’ora – ha raccontato -. A parte due suoi parenti che sono passati a salutarlo e un’altra persona che ci ha detto “ciao”, nessuno ci ha neppure guardato. È stata l’esperienza dell’invisibilità degli homeless e di chiunque sia povero o debole».
Un gesto concreto di condivisione, dunque, in linea con lo stile che fin dall’inizio ha scandito l’episcopato di mons. Bolen. Già nel 2009 – quando papa Benedetto lo nominò vescovo – aveva scelto come motto una frase di Thomas Merton in cui la parola misericordia è ripetuta per ben tre volte: «Misericordia nella misericordia nella misericordia». Una frase con cui il grande monaco americano riassumeva lo sguardo di Dio sul profeta Giona.
Ed è lo stile che accompagnerà mons. Bolen anche nel suo nuovo ministero nell’arcidiocesi di Regina, grande quanto la metà dell’Italia ma abitata da meno di 500 mila persone. In un’intervista al canale inglese della Radio Vaticana subito dopo la notizia della nomina ad arcivescovo di Regina ha assicurato che anche là continuerà «a servire quanti vivono ai margini e nelle periferie», con una particolare attenzione per le popolazioni native: «Cercherò di camminare con loro – ha detto – imparando da loro e impegnandomi nella forma di dialogo che è possibile ora». Prendendo anche a modello il modo in cui papa Francesco riesce a tenere insieme la richiesta di giustizia dal punto di vista delle strutture sociali, con la disponibilità a non perdere di vista «il povero o il bisognoso concreto che si incontra per strada». «Far dialogare questi due aspetti – ha concluso – è incarnare in modo credibile la Dottrina sociale della Chiesa».