«La religione qui non è elemento di divisione: gli studenti sono legati da rapporti di amicizia e rispetto. I ragazzi musulmani sanno che questo è un istituto cattolico e che troveranno compagni cristiani. Quando cominciano a frequentare le lezioni si accorgono che non vi sono differenze di trattamento e che ciascuno riceve le medesime attenzioni riservate agli altri: alla fine tutti si sentono, semplicemente, studenti della Saint Joseph». Sono parole del professor Isam Shuli, 52 anni, vedovo con sei figli: musulmano, docente di arabo con un’esperienza trentennale, insegna da otto anni alla Saint Joseph School, la scuola professionale maschile fondata dai padri orionini nel 1984 nella periferia di Zarqa, in Giordania. La città è situata a 40 chilometri a nord-est dalla capitale Amman: gli abitanti sono circa un milione, il 6% dei quali di fede cristiana. Non lontano dalla scuola sorge il campo profughi di Zaatari, il più esteso e popoloso del paese.
La storia di questa scuola racconta il ruolo strategico e cruciale che gioca l’istituzione scolastica nell’edificazione del legame sociale, un legame saldo, fraterno, capace di tenere, che sia al riparo dagli eccessi di identità o di liquefazione cui è particolarmente esposto nella nostra epoca.
La caratteristica della scuola
La Saint Joseph propone diversi indirizzi di studio (scientifico, letterario, informatico, alberghiero, industriale, meccanico, tecnico-falegnameria) e attualmente accoglie 650 ragazzi dai 13 ai 18 anni: 550 sono musulmani, gli altri cristiani. «Una peculiarità bella della nostra scuola è la presenza di studenti che provengono da paesi diversi e imparano a crescere insieme rispettandosi e volendosi bene: vi sono giordani, giordano-palestinesi, ma anche iracheni e siriani fuggiti dalla guerra e dall’Isis», racconta il padre orionino Hani Polus Al Jameel, 37 anni, iracheno, responsabile del santuario mariano Regina della Pace e docente di religione nella scuola.
L’impegno degli insegnanti
Il professor Isam si dice contento di lavorare alla Saint Joseph, per diversi motivi: «Apprezzo molto la gestione ordinata della scuola e il fatto che il paese di origine degli studenti non abbia alcun peso: non si fanno distinzioni qui mentre nel mondo giordano queste differenze sono spesso tenute in considerazione. Inoltre si riservano attenzioni a tutti, anche ai ragazzi meno dotati: in un sistema di scuole private competitivo come quello giordano, siamo contenti dei buoni risultati scolastici, ma il nostro obiettivo primario è offrire a tutti gli studenti la medesima dedizione. Noi docenti condividiamo lo scopo e la filosofia della scuola; il clima fra noi è sereno e la nostra diversa appartenenza religiosa consente di conoscere i rispettivi valori e pregi».
Gli fa eco padre Hani, che racconta: «Gli insegnanti cristiani e musulmani lavorano insieme con grande spirito di collaborazione e un unico obiettivo: la formazione professionale ed umana dei ragazzi. Lo scorso anno io e l’insegnante musulmano di religione abbiamo avviato un’iniziativa molto interessante: in alcune occasioni abbiamo unito le nostre classi preparando una lista di argomenti da affrontare dal punto di vista cristiano e islamico: i ragazzi ne sono stati entusiasti, facevano a gara per intervenire! È un’esperienza che vorremmo ripetere».
La pace si costruisce
Il professor Isam è convinto che la scuola rivesta un ruolo decisivo che per l’edificazione di una convivenza pacifica e operosa tra persone di fede e origine diversa: «L’accoglienza, il rispetto, la collaborazione non nascono spontaneamente nel cuore delle persone: i ragazzi imparano ciò che gli educatori trasmettono loro: la pace si costruisce e alla pace si viene educati». E padre Hani aggiunge: «Nella nostra scuola i ragazzi apprendono un mestiere lavorando con gli insegnanti, fianco a fianco: penso che il lavoro sia un fattore determinante per l’edificazione del legame sociale».
Entrambi si dicono convinti che le persone autenticamente religiose, che operano insieme, possano proporre una testimonianza significativa al mondo: «Possono offrire il loro esempio, mostrare che è possibile costruire insieme cose buone, condividere obiettivi e valori in vista dell’autentica promozione umana. Possono mostrare che la religione motiva l’uomo a impegnarsi e a dare il meglio di sé, che non è elemento di divisione per la grande famiglia umana ma, se correttamente intesa, porta a vivere una vita buona».
I profughi siriani e iracheni
Padre Hani e i suoi due confratelli si prodigano molto anche nell’assistenza dei profughi. Hanno cominciato prestando soccorso con quel poco che potevano offrire ma, non riuscendo ad aiutare tutti come avrebbero voluto, nel 2013 hanno preparato un progetto che è stato presentato a diverse istituzioni. La Conferenza Episcopale Italiana ha accolto l’iniziativa e, grazie ai fondi ricevuti, i padri orionini sono stati in grado di prestare soccorso a 14.000 profughi, in prevalenza siriani. Successivamente, con la ONG Manos Unidas, hanno avviato un secondo progetto per sostenere 12.000 profughi, soprattutto iracheni.
«È stato un lavoro immane», racconta padre Hani. «Le famiglie che lasciano il campo di Zaatari e si stabiliscono a Zarqa hanno bisogno di tutto: noi forniamo coupon per fare la spesa, materassi, stufe, coperte e altri beni di cui possono avere necessità, ad esempio le medicine. Per moltissimi siriani di fede islamica noi siamo stati i primi cristiani conosciuti da vicino: più di una volta si sono detti sorpresi delle nostre premure e ci hanno confessato che non credevano che i cristiani fossero così. Adesso ci rispettano e ci vogliono bene; ne siamo molto lieti. Al momento stiamo cercando altre organizzazioni con le quali proseguire questo lavoro perché sono da poco terminati i fondi e con le sole nostre forze non siamo in grado di assicurare l’assistenza necessaria».
L’esodo dalla valle di Ninive
Padre Hani conosce bene le sofferenze, le privazioni, le angosce dei profughi e il dramma degli iracheni nella Piana di Ninive, invasa dai miliziani dell’Isis nell’estate del 2014. «Le famiglie dei miei otto fratelli e i miei anziani genitori (mio padre ha 100 anni) sono stati costretti a lasciare precipitosamente Qaraqosh di notte, nell’arco di poche ore: insieme a migliaia di persone si sono avviati verso il Kurdistan, chi in macchina, chi a piedi. È stato un esodo immenso, un’esperienza durissima. I miei familiari sono ancora in Kurdistan, soltanto alcuni sono riusciti a emigrare. I profughi iracheni vorrebbero tornare nei loro villaggi, ma prevale la paura, sono convinti che non saranno mai al sicuro: per questo cercano in tutti i modi di raggiungere altri paesi».