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L’appello dal Sud Sudan: fare presto, qui si muore

Vatican Insider - pubblicato il 13/07/16

La guerra «nascosta» alla maggior parte del mondo occidentale è scoppiata in maniera fragorosa. Il Sud Sudan è ripiombato così nello sconforto e nella desolazione di uno scontro interno che lascia morti sul campo e profughi lungo le strade. Non tengono i presunti accordi tra le parti in causa: da una parte il presidente Salva Kiir con l’etnia maggioritaria Dinka, dall’altra il suo vice Riek Machar con quella minoritaria Nuer. Dopo il mini-genocidio di Wau di due settimane fa, lo scorso venerdì, in una sola notte, sono stati registrati duecento morti, mentre il sabato e la domenica nel buio della capitale Juba si sentivano gli scoppi di cannone e delle mitraglie e non il suono delle campane. La paura ha portato più gente nelle chiese a pregare per la pace. I Salesiani hanno messo a disposizione le aule della scuola e, a seconda degli arrivi, anche la chiesa. Con l’aiuto della Provvidenza, assicurano, c’è spazio (fino a quando?) anche per un pasto al giorno. Lì si presentano stremati dopo nove ore di cammino per coprire, senza cibo e acqua, molti chilometri. Nessuno è escluso. Genitori che perdono i figli durante la fuga, bambini e anziani che camminano sperando di vedere una nuova alba di speranza: se i più piccoli hanno fin qui vissuto una situazione di continuo allarme, nonostante l’indipendenza del 2011, la popolazione più matura si auspica di terminare la propria corsa in un tempo di pace. La comunità adulta cristiana si affida a «Dio, che è grande»; i bambini, nella loro semplicità, chiedono caramelle. Lo scontro fratricida sta, però, facendo emergere i lati più oscuri dell’umanità. Un ex detenuto ha raccontato ai Salesiani di essere stato costretto, pena la fucilazione, a mangiare la carne di un altro prigioniero. In questo scenario lo sconforto è tanto anche da parte della Chiesa che ha condannato senza appello la condotta dei leader politici, i veri responsabili di questo grande ed ennesimo sterminio. «Stiamo vivendo – racconta il missionario salesiano Jim Comino – ore di angoscia. Ogni giorno sentiamo vicina la morte, ma siamo contenti di riuscire a salvare almeno la vita di un bambino. Sabato 9 luglio pensavamo a un’evoluzione rapida del conflitto, non a caso molte agenzie di volontariato hanno deciso di lasciare subito il Paese. Nel pomeriggio di domenica sono incominciate delle sparatorie sporadiche; improvvisamente centinaia di persone, in maggioranza mamme con i bambini, hanno bussato alla nostra porta: in testa avevano solo un grosso fagotto con l’indispensabile. Li abbiamo sistemati nelle scuole che in poco tempo si sono dimostrate inadatte ad accogliere tutti, perché abbiamo visto passare 1500 persone, affamate e sfinite dopo 18 km di cammino».  

Lunedì 11 luglio l’aeroporto ha smesso di funzionare e le strade sono state bloccate. Sparatorie di ogni tipo dalle 17 alle 22: cannonate, raffiche di mitragliatrici e pallottole che si innalzavano nel cielo come fuochi artificiali. I proiettili hanno colpito anche i luoghi salesiani. È stato in quelle ore che la recita corale del rosario è diventata l’antidoto alla paura: «Ci siamo detti che don Bosco in quel frangente avrebbe recitato il rosario e così abbiamo fatto. Al termine del quarto rosario, le sparatorie sono diminuite. Forse avevano finito le munizioni? Un miracolo? Non lo so ma in questi 23 anni di esperienza in Sud Sudan non è la prima volta che la Madonna si rende presente e tangibile».  

Alla data del 12 luglio i Salesiani danno un riparo a più di 5mila persone che cercano, nella difficoltà, di aiutarsi a vicenda. «Una donna – spiega Comino – è riuscita a scappare con la sua famiglia, ma nella fuga il fratello è stato ucciso dai ribelli davanti alla moglie e ai cinque figli. Il suo obiettivo adesso è di tornare indietro per recuperare la cognata e i nipoti». Non sappiamo cosa ci riserveranno questi giorni, di certo non vorremmo rivedere i fuochi artificiali. La popolazione è stanca. Abbiamo bisogno di parole forti e di un aiuto concreto da parte della comunità internazionale. C’è una crisi umanitaria già in atto destinata a peggiorare. Non so più in che mondo viviamo». 

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