Intervista con il vescovo Gervas Rozariodi Paolo Affatato
Predica la misericordia, ma invita a intervenire con decisione sul sistema di istruzione, soprattutto sul punto decisivo delle scuole coraniche, che instillano l’odio religioso nelle menti dei giovani. Gervas Rozario, vescovo di Rajshahi, è ancora scosso per la strage di Dacca del primo luglio, quando un commando di sette giovani terroristi tra i 20 e i 22 anni ha ucciso 20 ostaggi, nove dei quali italiani. E illustra a Vatican Insider lo iato generazionale nella società: “l’islam di questi giovani ha tradito quello dei padri”.
Come avete reagito a questo atto terroristico?
«Prima di tutto aggrappandoci alle fede. Come cattolici, (siamo 400mila, lo 0,2% della popolazione di 160 milioni di persone), condanniamo la violenza inaudita e la barbarie disumana del terrorismo che ha spregio delle vite umane. Proprio in questo anno santo, invitiamo tutti a lasciarsi toccare e trasformare da valori come la misericordia e il perdono, che sono i tratti autentici di un essere umano. Da cittadini bengalesi, partecipiamo pienamente al lutto in cui è immerso il paese e preghiamo per le anime delle vittime e per le loro famiglie, esprimendo profonda solidarietà. Ma nella certezza che le tenebre non prevarranno».
Come continuerà la vostra missione in Bangldesh?
«La piccola Chiesa bengalese ha celebrato sante messe e continuerà a pregare per la nostra nazione, colpita al cuore, partecipando spiritualmente a questa sofferenza e offrendo a Dio questo tragico momento. Come cattolici bengalesi, il nostro lavoro prosegue nel fare del bene alla nazione attraverso l’apostolato sociale, le scuole, gli ospedali, la Caritas. La nostra missione continua, beneficiando, senza alcuna discriminazione, cittadini di ogni ceto sociale, religione, etnia e cultura, specialmente i più poveri ed emarginati. E, in una nazione a larga maggioranza islamica, ci occupiamo principalmente di curare e assistere cittadini musulmani».
Come è possibile che giovani i buona famiglia diventino killer spietati?
«Vorrei dire che dietro la radicalizzazione di questi giovani c’è un fallimento della famiglia. I genitori non si curano abbastanza dei figli: danno loro solo denaro e vita agiata senza curarsi della loro formazione, idee, mentalità. Li hanno esposti alla propaganda ideologica che ha promesso loro di diventare eroi o di avere il Paradiso, uccidendo. D’altro canto esiste, nella comunità islamica, un chiaro gap generazionale. L’islam dei giovani tradisce quello dei padri: gli adolescenti, obnubilati dalla propaganda jihadista del Daesh (lo Stato Islamico) o di Al Qaeda, disprezzano la visione dei musulmani sufi – aperta, tollerante, accogliente, mistica – che hanno respirato, vissuto e insegnato i loro genitori».
Ma come è avvenuta questa mutazione?
«Attraverso una colonizzazione ideologica di cui oggi si avvertono le conseguenze. Negli ultimi anni sono nate migliaia di scuole coraniche gratuite, le ‘madrase’, che hanno propagato un islam duro e intollerante, in contrasto con la visione diffusasi fin dal XIII secolo nel Golfo del Bengala, influenzato dalle correnti della mistica islamica sufi, ma anche da credenze e tradizioni induiste e buddiste. In queste madrase si fa un vero lavaggio del cervello ai giovani, formandoli a idee radicali. Questo è davvero un problema nazionale che il governo dovrebbe affrontare, monitorando e riformando il sistema di istruzione».
E’ questa, a suo parere, una priorità?
«Secondo me, la questione delle scuole coraniche è un punto decisivo. Ve ne sono di due tipi: le madrase riconosciute e controllate dallo stato, e quelle private, che non ricevono sussidi pubblici e sono indipendenti. Molte di queste, finanziate dall’Arabia Saudita, diffondono un’interpretazione restrittiva dell’islam. Esiste, poi, una galassia, nemmeno censita, di scuole islamiche “fai da te” in case, piccole moschee e quartieri periferici. Snidare l’estremismo si fa, allora, davvero difficile. Dal controllo sul sistema di istruzione passa la possibilità di sconfiggere il terrorismo che è aumentato negli ultimi anni».
Cosa direbbe ai leader islamici del suo paese?
«Molti leader islamici bengalesi che hanno condannato la violenza, e specificato che essa non appartiene all’islam. Ma le parole non bastano: bisogna fare di più nel paese e farlo insieme. Tutte le forze sane, tutte le comunità religiose, devono unirsi, a partire dalle istituzioni, per riportare i valori di pace e tolleranza al centro dell’agenda politica e sconfiggere insieme la minaccia terrorista. La comunità islamica può avere la grande responsabilità e il ruolo di guidare questa rinascita».