Monsignor Hyacinthe Destivelle, responsabile della sezione orientale del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, ha potuto seguire i lavori del Concilio ortodosso svoltosi nei giorni scorsi nell’isola di Creta. Superate le paure e le incertezze della vigilia, l’assise si è svolto in un clima di collaborazione. Nel frattempo si lavora al prossimo appuntamento della commissione mista ortodosso-cattolica che si terrà a settembre, proprio sul tema del rapporto fra primato e conciliarità.
Padre Destivelle, le chiederei innanzitutto alcune impressioni generali sul Concilio ortodosso, sul clima che si respirava…
«Alla vigilia c’erano molte incertezze, discussioni sull’assenza di alcune Chiese (4 chiese ortodosse non hanno partecipato ai lavori, fra queste il patriarcato di Mosca), c’erano voci di problemi e dissensi circa alcuni documenti che dovevano essere approvati. Poi quando il Concilio è partito con la liturgia della Pentecoste, tutto si è svolto in un modo molto, molto tranquillo e positivo. In un clima di dialogo fraterno e di preghiera. Mi ha colpito quindi il contrasto fra la vigilia, in cui c’erano queste difficoltà, questi ostacoli, queste voci e il modo in cui poi si sono svolti i lavori, in un clima di dialogo. L’ordine del giorno dei lavori è stato seguito fino in fondo, documento per documento. Tutti i documenti sono stati adottati. E in più ci sono state anche questa enciclica e questo messaggio conclusivi».
E’ possibile dire in sintesi quali sono stati i risultati più importanti dell’assise?
«Il primo frutto del Concilio è proprio questo scambio fraterno fra le diverse chiese che erano presenti. Da parte di alcuni primati è stata espressa la necessità che questo modo di lavorare nella sinodalità venga istituzionalizzato con una frequenza regolare, e questo auspicio è stato espresso anche nel Messaggio nel quale si dice che ogni 7 o 10 anni dovrebbero essere convocati dei concili».
Quindi il Concilio inteso come metodo è un primo traguardo…
«Il primo punto, al di là dei documenti, è il Concilio stesso; c’è stato un lungo cammino per prepararlo e allo stesso tempo si tratta di un nuovo cammino appena iniziato di sinodalità. C’è questo cammino di conciliarità che è ancora più importante, io direi del concilio stesso, un cammino appena iniziato, con la possibilità di altri incontri come questo».
Un aspetto, questo, importante anche per papa Francesco…
«Sì, un altro punto particolarmente importante è che questa idea di sinodalità costituisce un ambito importante anche per papa Francesco. Il Papa ha infatti più volte menzionato la sinodalità nell’ambito dello scambio dei doni fra cattolici e ortodossi; nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium, dice che la sinodalità è un dono che noi cattolici possiamo ricevere dagli ortodossi e proprio questo argomento è al centro del dialogo teologico fra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa nel suo insieme. Si può sperare che la prossima plenaria della commissione mista cattolico-ortodossa che si terrà a settembre a Chieti, adotti un nuovo documento proprio su questo argomento, della relazione fra primato e conciliarità. Nella commissione sono presenti tutte e 14 le chiese ortodosse».
Quanto hanno pesato le assenze? Per esempio mancava il patriarcato di Mosca…
«Il Concilio è stato preparato praticamente nell’arco di 50 anni da tutte le 14 chiese ortodosse, fino all’ultimo momento, compresi i documenti e le decisioni che sono state prese da tutte le chiese. La preparazione è stata veramente panortodossa. Ora dobbiamo vedere quale sarà la ricezione delle decisioni prese da parte di tutte le chiese e particolarmente da parte delle chiese che erano assenti; queste chiese, soprattutto, dovranno pronunciarsi sullo statuto del concilio, e anche sui documenti che sono stati adottati dall’assise. E poi ripeto: questo concilio è l’inizio di un cammino, quindi è nel tempo che vedremo in che modo l’insieme delle chiese ortodosse valuteranno e riceveranno questo concilio. D’altro canto tutti i concili hanno avuto una storia complicata, come è stato ricordato dal patriarca Bartolomeo, il terzo Concilio di Efeso al quale non prese parte la chiesa di Antiochia, è stato riconosciuto come ecumenico, altri concili in cui erano presenti tutte le chiese, non sono stati invece riconosciuti come ecumenici. Una cosa certa è che il principio di ricezione è molto importante nell’ecclesiologia e soprattutto nell’ecclesiologia ortodossa».
Un altro aspetto importante è quello ecumenico: come se n’è discusso?
«Il documento sulle relazioni con l’insieme del mondo cristiano non fa differenze fra le diverse chiese e confessioni, parla in termini generali. Il progetto iniziale invece stabiliva una distinzione fra le diverse chiese e comunità ecclesiali. C’era quindi un approccio diversificato a seconda delle confessioni di cui si parlava. In questo testo, però, ciò non avviene quindi non si parla in modo specifico della Chiesa cattolica».
Molti temi enunciati nei documenti finali sembrano essere però in sintonia con il magistero di papa Francesco…
«Dobbiamo distinguere: il documento sull’ecumenismo si occupa soprattutto dell’aspetto teologico, poi ci sono le questioni relative alle sfide del mondo contemporaneo, toccate per esempio dall’enciclica, ma non legate in senso stretto alla collaborazione ecumenica. Comunque si può pensare, si può sperare, che questi campi siano un terreno d’impegno comune, come del resto già avviene. Fra l’altro papa Francesco inizia l’enciclica Laudato sì con un riferimento al patriarca Bartolomeo, e anche con il patriarcato di Mosca si parla di vari temi comuni: dai cristiani perseguitati alla famiglia ecc., quindi ci sono già questi campi di testimonianza comune e collaborazione».
Si può dire che su vari temi c’è una visione cristiana comune?
«Si, si può dire e ci si può rallegrare che abbiamo una visione comune sul mondo e su tutte le sfide contemporanee: dalla tutela del Creato alla promozione della pace, dalla secolarizzazione alla famiglia, e poi sulle migrazioni, i profughi e così via e quindi tutte queste sfide costituiscono un campo di collaborazione».
Quanto incidono gli incontri di alto livello fra il Papa e Bartolomeo, fra il Papa e Kirill, sull’andamento del dialogo ecumenico?
«I rapporti fra le chiese non si limitano ai rapporti fra i ’capi’, questi ultimi sono un esempio, un modello, per far sì che ci incontriamo anche livello più basso, di base. Questi incontri di vertice, inoltre, hanno non solamente un significato per il dialogo della carità, ma anche sul piano teologico. Quando Atenagoras (patriarca ecumenico di Costantinopoli, ndr) è andato a Gerusalemme nel 1964 per incontrare per la prima volta dopo secoli Paolo VI, a una giornalista che chiedeva cosa penseranno i teologi di questo incontro lui ha risposto “i capi s’incontrano i teologi spiegano”. Dobbiamo quindi rileggere i gesti che sono compiuti dai leader religiosi anche sotto il profilo teologico. Il cammino che fa adesso papa Francesco con il patriarca Bartolomeo e poi anche con il patriarca russo Kirill e con altri, porterà dei frutti teologici».
Mentre si svolgeva il Concilio ortodosso di Creta, papa Francesco era in Armenia, e anche lì, con un’altra chiesa, costruiva un pezzo di questo dialogo con l’oriente cristiano…
«Sì, infatti per papa Francesco l’ecumenismo è un cammino, un cammino che si fa insieme. In greco camminare insieme si dice ’sinodo’; Papa Francesco ha questa preoccupazione della sinodalità interna alla Chiesa cattolica, ma potremmo anche dire che per papa Francesco l’ecumenismo è anche un tipo di sinodalità esterna, un cammino comune con gli altri cristiani e l’importante è appunto questo: il procedere insieme, fare le cose insieme, testimoniare insieme, pregare insieme. E l’unità fra i cristiani verrà fuori da questo: camminiamo insieme e un giorno l’unità ci sarà data come un dono del Signore. Ma non possiamo prevedere le forme di questa unità».