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Pakistan, la vita dei cristiani nel ghetto

Vatican Insider - pubblicato il 04/07/16

E’ un inferno dove nessuno vorrebbe vivere. Eppure nella «Joseph colony», a Lahore, ci sono tremila persone, ammassate in casupole di argilla, spesso un unico ambiente che ospita più nuclei familiari. Senz’acqua, elettricità, fognatura. Uno slum in piena regola, situato in una zona industriale e circondato interamente da fabbriche.  

Lahore è la capitale del Punjab pakistano ed è la città storicamente più importante del paese. Fiorente di cultura, culla dell’intelighentia, brillante dal punto di vista economico e politico. Come in tutte le megalopoli (oggi conta undici milioni di abitanti), a Lahore non mancano insediamenti abusivi e baraccopoli. Ma tra gli slum, la «Joseph colony» ha una peculiarità: ci vivono solo i cristiani. «Da 38 anni, cioè da quando la colonia è nata, sono in condizioni subumane, nel degrado assoluto. Ma nessuno si interessa di loro», racconta Philp John, parroco del quartiere.

Un altro giovane prete, Asif Sardar, 28 anni, ogni domenica celebra messa nell’improvvisata cappella all’interno della colonia, per le cento famiglie cattoliche che vi risiedono. C’è anche una sala di culto protestante e una rudimentale scuola gestita da una Ong. «E’ tutta povera gente. Le donne fanno le domestiche, gli uomini sono lavoratori a giornata, addetti alle pulizie, operai edili, facchini, trasportatori. Sono qui perché non hanno alternative. E’ uno dei quartieri più poveri di Lahore», racconta Asif.  

La qualità dell’aria e del suolo è scadente, tra fumi e liquami. L’acqua arriva una volta al giorno, grazie a una cisterna. A quel punto l’ambiente si anima: le donne puliscono casa, sciacquano panni e stoviglie, mentre i bambini si lavano in strada, tra i vicoli. «Nessuno dovrebbe vivere in queste condizioni», osserva amaramente  

Asif, sognando un progetto di housing sociale. 

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Le «colonie» sono ghetti monoreligiosi che raccolgono la maggior parte dei cristiani pakistani, il 3% della popolazione su 200 milioni abitanti. Furono avviate con tutt’altra intenzione dai missionari cappuccini belgi che, alla fine del 1800, portarono il Vangelo in quest’area del subcontinente indiano. I primi battezzati, allora, avevano bisogno di sviluppare un senso di solidarietà reciproca e di rafforzare la loro identità cristiana, in un ambiente musulmano, restando uniti. Oltre un secolo dopo, a quei motivi si aggiunge l’esigenza di sicurezza e protezione che le famiglie cristiane avvertono in Pakistan. Preferiscono avere accanto dei correligionari, soprattutto se hanno figlie adolescenti che possono diventare facile preda di uomini musulmani: i sequestri a scopo di nozze e conversioni forzate all’islam sono una diffusa realtà. Chi non è parte della umma può subire patenti abusi. Nella mentalità corrente, infatti, soprattutto tra la gente meno istruita, i membri delle minoranze religiose restano «esseri inferiori». Si tratta di un’eredità dell’antica concezione castale, dato che le comunità cristiane e indù rimaste in Pakistan – dopo la partizione dall’India nel 1947 – appartenevano alle fasce sociali più basse. Quello stigma si avverte ancora oggi e i non musulmani sono cittadini di seconda classe, anche perchè le modifiche alla Costituzione, approvate negli anni, hanno istituzionalizzato la discriminazione. 

E’ stata un facile bersaglio, allora, la Joseph colony quando, nel marzo 2013, una folla di musulmani l’ha data alle fiamme, con l’intento di impartire una «punizione di massa» ai cristiani. Il tutto per un caso di «blasfemia» che, come spiega Parvez Paul, laico cattolico che abita nella colonia, «fu un pretesto dopo un diverbio tra due giovani ubriachi», il cristiano Sawan Masih e il musulmano Shahid Imran. Quest’ultimo andò alla vicina moschea per denunciare il presunto vilipendio all’islam. Da lì, grazie all’istigazione del clero islamico, il passo verso l’assalto fu breve. E’ vero che la polizia fece evacuare la colonia, evitando una strage, ma poi non impedì che l’area fosse saccheggiata e bruciata. Al danno si aggiunse la beffa: in capo a un anno, Sawan Masih è stato condannato a morte per l’offesa al Profeta. Gli autori dell’incendio doloso sono invece a piede libero. Emmanuel Yousaf, presidente della commissione «Giustizia e pace» dei vescovi cattolici, rileva che «la politica è rimasta sorda agli appelli sollevati della società civile. Ben pochi hanno avuto il coraggio di protestare contro questa parodia della giustizia». Povertà, discriminazione, ingiustizia, oggi alimentano un fenomeno nuovo: l’esodo. Secondo stime delle Ong, nell’ultimo anno 14mila cristiani pakistani hanno chiesto asilo in paesi dell’Asia orientale e nel Sudest asiatico

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