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Hare Krishna e ritorno. La storia delle Ancillae Domini

Marinella Bandini - Aleteia - pubblicato il 27/06/16

Il cammino di quattro adolescenti in cerca del senso della vita. Oggi sono monache e madri

C’è stato un tempo in cui quattro ragazze italiane tra i 20 e i 35 anni vestivano con il sari arancione e portavano la tipica decorazione indiana in mezzo alla fronte, un punto rosso. Ieri erano devote Hare Krishna, oggi  si chiamano “Ancillae Domini”, sono riconosciute dalla Chiesa, indossano un sari bianco, il velo, il crocifisso e al posto del japamala (la corona usata per la ripetizione del mantra) pregano il rosario. “Fin da piccola ho cercato Dio” racconta Madre Veronica. Ancora bambina assillava la mamma con i suoi “e poi?” su cosa la vita le avrebbe riservato. Cresce: lo studio, il volontariato, gli amici, ma nel cuore ha una voragine. “Una domenica pomeriggio, chiusa in camera, cominciai a urlare: Dio, se ci sei da qualche parte, vienimi incontro”. La stessa inquietudine, qualche anno dopo, di Maria Laura, Maria Grazia e Maria Assunta: figlie di un cristianesimo di regole e di facciata, adolescenti in cerca di verità, di amore, di bellezza, di senso della vita, che nessuno degli amici e dei famigliari sembra cogliere.

Maria Assunta è chiusa in se stessa, senza amici e interessi: “curavo solo l’estetica”. Arriva ad assumere ansiolitici e cerca qualcosa cui aggrapparsi. La trova ascoltando la radio del Movimento Hare Krishna: “mi ha incuriosito, ho cominciato ad ascoltare… finché ho sentito il desiderio di incontrarli”. Il percorso di Maria Laura nasce “da una esigenza profondissima di trovare il senso della vita, l’amore e la perfezione”. Va in palestra, diventa vegetariana. Il suo istruttore le porta un libro-intervista al fondatore degli Hare Krishna: “Lì ho trovato le risposte alle mie domande. Ho lasciato tutto. Non c’era un prezzo troppo alto da pagare, senza quello sarei finita nel suicidio o nella follia”. Maria Grazia frequenta “cattive compagnie” ma tutto diventa “insopportabile. Perché vivere?”. Tramite la sorella conosce la religione vaishnava e “finalmente trovai una risposta: vivere era servire Dio”. Di nuovo Madre Veronica: “Ho abbracciato l’esperienza Hare Krishna improvvisamente. Fu all’indomani del mio urlo”.

Quando arriva al tempio per la prima volta rimane affascinata. I sapori, gli odori, la pace. “Il nome di Dio è krishna, divinamente affascinante”. Altri nomi sono “colui che solleva dalla sofferenza”, “oceano di misericordia”. “Per me erano concetti nuovi. Venivo dalle suore, dove se avevo i capelli sciolti era peccato”. Comincia a frequentare i devoti, poi la decisione: “Un giorno dopo pranzo dissi a mio padre, a mia madre e alle mie sorelle: tra un quarto d’ora parte il pullman, mi porterà al tempio Hare Krishna”. La vita al tempio trascorre in un quotidiano cammino ascesi. Le regole sono rigide e temprano la mente e il fisico. Veronica arriva a dirigere tre dipartimenti su nove, Maria Laura è il suo braccio destro. Ma l’inquietudine si riaffaccia: “Dopo 15 anni sono andata in crisi: Dio era sparito dal mio cuore, lo cercavo e sbattevo la testa contro il marmo dell’altare: dove sei?” I maestri spirituali non bastano più, Veronica ne vede i limiti umani; i principi su cui aveva formato la sua vita si stanno corrompendo.

Chiede a Dio un nuovo maestro. E “un bel giorno ho inciampato in Gesù Cristo”. Complice una gita ad Assisi con la sua famiglia. È il tramonto quando scende verso la Porziuncola: “Qualcosa mi fa girare e vedo questo grande crocifisso. Non succede niente, nessuna apparizione, ma scoppio a piangere e Gli urlo: dove sei stato?” Chiede a Maria Laura di accompagnarla in chiesa di nascosto. Lei stessa a racconta: “Un angolo importantissimo della mia vita restava oscuro, l’angolo della sofferenza. In quella filosofia se soffri è perché hai fatto qualcosa di male. È qualcosa di inutile”. Una statua della deposizione suscita in lei una forte impressione: “È come se mi avesse detto: tu devi vivere e morire per me. Quello era il tutto che stavo cercando, che poteva abbracciare tutta la mia esistenza. La sofferenza e la morte diventavano strumento di salvezza”. Veronica e Maria Laura cominciano una doppia vita che dura più di un anno: le fughe per andare in chiesa, “prima con i nostri abiti, poi cambiandoci per non essere riconosciute”.

Più tardi si uniscono Maria Grazia e Maria Assunta. Di lì a poco la partenza del gruppo, il 19 marzo 1995. “La mattina ci fu una grossa discussione” con il responsabile del tempio “e la sera siamo andate via”. Sono il primo nucleo della comunità delle Ancillare Domini, anche grazie tanti sacerdoti che le hanno accompagnate. “Stavo riposando un pomeriggio, ero ancora al tempio. Sento una voce che mi dice: vi chiamerete Ancillae Domini” racconta Madre Veronica. Un percorso non senza tormenti per lei, che aveva pensato a una vita di ritiro: “Volevo fare l’eremita e mi trovai a fondare un ordine monastico”. Tra l’altro la sua vita è appesa un filo, deve tenere l’ossigeno a portata di mano, e per i medici non si capisce come ancora possa camminare. Dalla provincia di Bergamo si trasferiscono a Nicolosi, alle pendici dell’Etna, dove tuttora vivono e operano in favore di tanti bisognosi. Per chi bussa, la porta è aperta. La provvidenza non fa mancare nulla. Nessun rancore verso il passato: gli anni al tempio hanno segnato una crescita spirituale, in cui sono state condotte dal misterioso disegno di Dio.

La loro vita attuale non ha perso, tra l’altro, alcuni accenti di spiritualità orientale. Gli incensi bruciano nella cappella della loro abitazione. Qui non ci sono sedie e inginocchiatoi ma tappeti. Continuano a indossare il sari, fanno apostolato itinerante: per strada, nei negozi, nelle case. Dalla tradizione ortodossa hanno adottato la “preghiera continua”: dal loro fianco pende il komboskini, una “corda di preghiera” di cento nodi, per ognuno dei quali si ripete: “Gesù, figlio del Dio vivo, abbi pietà di me peccatore”. D’estate, per un mese, si ritirano in un eremo, dove vivono in silenzio e preghiera, secondo i ritmi della natura (per esempio non hanno luce elettrica e acqua corrente). La preghiera è il perno della loro vita: “Contemplare significa stare davanti a Dio e lasciarsi imprimere la Sua energia. Da qui scaturisce un’azione che non è nostra, di buona volontà, ma carica di un altro Spirito”. È questo che permette a quattro donne di essere Ancillae Domini, o “Ancillae da sbarco” secondo un’espressione della Madre: capaci di stare in solitudine e di vivere nel mondo, capaci di affrontare le difficoltà della vita, capaci di preghiera e di silenzio. Capaci di lottare e di essere madri per chi incontrano.

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