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Melchiti divisi, rinviato il Sinodo

Vatican Insider - pubblicato il 22/06/16

Il Sinodo di una Chiesa d’Oriente costretto ad aggiornarsi perché la maggioranza dei vescovi ha deciso di non partecipare, in polemica con il patriarca di cui chiedono le dimissioni. Con l’interessato che, a sua volta, promette di non cedere «davanti a pressioni illegali e ingannevoli». Proprio mentre a Creta il mondo ortodosso sperimenta la difficoltà di un Concilio che dopo secoli sta provando a tracciare una strada comune tra i diversi patriarcati autocefali, anche una Chiesa di rito bizantino in comunione con Roma fa i conti con una clamorosa spaccatura. Si tratta del patriarcato melchita, la Chiesa araba che ha la sua sede a Damasco e conta oggi fedeli non più solo in Siria, Libano, Palestina, Israele e Giordania, ma anche tra gli arabi cristiani emigrati negli Stati Uniti, in Australia, in Francia e in America Latina.  

Per questa settimana il patriarca Gregorio III Laham aveva convocato l’annuale Sinodo, che avrebbe dovuto tenersi ad Aïn Trez, la sede estiva del patriarcato, sulle pendici del Monte Libano. Ma l’incontro ha fatto venire alla luce una divisione profonda che attraversa oggi la gerarchia melchita: sui ventidue vescovi che compongono il Sinodo, infatti, solo dieci si sono presentati all’appuntamento. Con gli altri che – dopo essersi già rivolti alla Congregazione per le Chiese Orientali per chiedere le dimissioni del patriarca – non sembrano al momento intenzionati a ricomporre all’interno del Sinodo il loro conflitto, come invece era stata l’indicazione di Roma. 

Al centro delle loro critiche c’è l’operato di Gregorio III Laham, 85 anni, eletto nel 2000 «patriarca di Antiochia e di tutto l’Oriente» – come recita il titolo della guida della Chiesa melchita – dopo essere stato per molti anni l’esarca patriarcale di Gerusalemme per questa Chiesa di rito bizantino in comunione con Roma dal 1729.  

Alle critiche rivolte contro di lui – che toccano anche questioni legate alla gestione del patrimonio – Gregorio III ha risposto definendole «ingannevoli» e chiedendo un dibattito «rispettoso, franco e trasparente, in spirito di dialogo e di carità», da tenere in un nuovo Sinodo che potrebbe tenersi nel mese di ottobre. Ma in una nota ha anche precisato di considerare il boicottaggio «un atto di aperta ribellione ecclesiastica» e la richiesta di dimissioni incondizionate del patriarca «una condotta irresponsabile, non ecclesiale e illegale, che ha provocato un’ondata di collera, proteste, dubbi e perplessità fra i fedeli».

A guidare l’opposizione nei confronti del patriarca è l’arcivescovo melchita di Beirut, Cyrille Bustros. È stato lui a a sollecitare l’intervento di Roma, facendosi portavoce di un disagio che coinvolge anche altre diocesi della Siria e del Libano; ma la Congregazione gli ha risposto ricordando che il Codice delle Chiese Orientali, al numero 126, prevede che una sede patriarcale sia considerata vacante solo in caso di morte del patriarca o di rinuncia spontanea della sua carica (come avvenuto tra i maroniti nel 2011 con Pierre Sfeir). Va anche ricordato che il nome del settantasettenne Bustros non è nuovo alle cronache vaticane: nel 2010, infatti, durante il Sinodo per il Medio Oriente, alcune sue parole pronunciate in una conferenza stampa da arcivescovo melchita di Newark scatenarono una tempesta mediatica con il mondo ebraico intorno al tema del «superamento» dell’idea del «popolo eletto». 

La spaccatura tra i melchiti si inserisce nel difficile contesto del Medio Oriente di oggi, segnato da guerre e tensioni politiche esasperate. Questioni che finiscono per influenzare la vita stessa delle comunità cristiane, rendendo più faticoso l’esercizio della sinodalità. Ed è interessante notare che – proprio mentre tra i melchiti andava in scena questa spaccatura – un’altra Chiesa cattolica di rito orientale, quella caldea, viveva nelle stesse ore un momento di unità tutt’altro che scontato con l’assemblea generale del clero voluta dal patriarca Luis Raphael Sako a Erbil, dove la maggior parte dei cristiani iracheni vivono oggi come profughi. 

Anche Sako in questi mesi ha dovuto, infatti, affrontare la ferita dei sacerdoti che – senza il consenso del patriarca – hanno lasciato l’Iraq per trasferirsi negli Stati Uniti, accolti dalla locale diocesi caldea. E proprio dall’incontro del clero a Erbil il patriarca caldeo ha lanciato ai suoi vescovi un nuovo appello all’unità, invitandoli a «condividere con il patriarca il peso delle aspirazioni della Chiesa» e a coltivare una «partecipazione attiva e responsabile al Sinodo, che rafforzi la collegialità promuovendo l’amicizia e i legami tra di noi».  

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