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Damasco, legami operosi tra cristiani e musulmani

Vatican Insider - pubblicato il 22/06/16

Dopo cinque anni di guerra la Siria è in ginocchio. Nella capitale, a Damasco, tra cumuli di macerie e vite impaurite e prostrate dalla violenza, c’è chi con tenacia e pazienza resiste cercando in ogni modo di onorare e rinsaldare quei legami di affetto, di vicinanza e di cura che rendono “umana” la vita, anche quando è vissuta in condizioni difficili. 

Suor Carol Tahhan, 44 anni, siriana (di Aleppo), direttrice della comunità salesiana che gestisce una scuola materna, tre laboratori di sartoria e un grande oratorio, descrive la quotidianità di Damasco evidenziando i legami tra persone di fede diversa che il conflitto non ha interrotto o compromesso: «In città, prima della guerra, quasi non si faceva caso all’appartenenza religiosa delle persone e anche la convivenza tra cristiani e musulmani era buona. Oggi la situazione è mutata: i musulmani sono spesso divisi in fazioni contrapposte e si sono manifestate forme di fanatismo che seminano grandi sofferenze. Tuttavia, tra molti cristiani e musulmani i rapporti sono ancora buoni: vedo questi legami all’opera nell’amicizia sincera che unisce tanti ragazzi a scuola, nei gesti di solidarietà che si scambiano le famiglie, nella complicità con cui affrontano insieme i problemi e si sostengono. Noi suore aiutiamo tutti, senza risparmiarci e senza fare distinzioni fra cristiani e musulmani, sull’esempio di Gesù. Nel nostro lavoro possiamo contare anche sull’aiuto di volontari e collaboratori di fede islamica, persone buone e generose che operano con grande dedizione. Ci sentiamo molto rispettate da loro così come da tutta la popolazione, incluso l’esercito».  

La vita quotidiana

Da quando è iniziata la tregua, la vita in città è migliorata: la corrente elettrica viene erogata in tutti i quartieri almeno per alcune ore al giorno, sebbene mai ad orari fissi, e l’acqua è disponibile nelle ore diurne. «Udiamo esplosioni o colpi d’arma da fuoco, ma solo di rado», prosegue suor Carol. «Tuttavia, nonostante questi progressi, nessuno si sente veramente al sicuro: abbiamo la speranza che la tregua regga ma non ci abbandona mai il timore che possano riprendere gli scontri e il lancio di missili. Il problema maggiore è la povertà: i prezzi, specie dei viveri, sono aumentati all’inverosimile e moltissime persone non riescono a far fronte alle necessità quotidiane. Io e le mie quattro consorelle distribuiamo pacchi alimentari e medicinali, sosteniamo i più bisognosi nel pagamento dell’affitto e delle cure mediche, dedichiamo molto tempo all’ascolto di tutti coloro che, con il cuore ferito, cercano parole di conforto e incoraggiamento. Non abbiamo mai pensato di abbandonare la Siria, neppure quando i combattimenti erano intensi. Siamo qui per rimanere e continuare a prenderci cura delle persone tanto duramente provate».  

I bambini e le ferite della guerra

La maggior parte dei 217 piccoli che frequentano la scuola materna è di fede islamica: i genitori chiedono di iscrivere i loro figli perché si è sparsa la voce che qui i bambini ritrovano la serenità, la calma, l’allegria: «Ci prodighiamo insieme alle maestre (una è musulmana ed è una donna di grande valore) proprio per offrire un clima rasserenante e gioioso, prestando molta attenzione ai bisogni di ciascuno» spiega suor Carol. «Purtroppo la guerra ha lasciato ferite profonde nei bimbi, che manifestano segni evidenti dei traumi subiti: penso ad esempio a una piccola, giunta pochi giorni fa, che ha assistito all’omicidio del nonno da parte di miliziani dell’Isis: da quel giorno non riesce più a parlare, farfuglia frasi incomprensibili e si muove in continuazione. Al momento stiamo ancora cercando di comprendere quale sia il modo migliore di aiutarla. 

Spesso i bambini manifestano varie forme di aggressività e quando portano da casa i loro giocattoli preferiti scopriamo che non di rado si tratta di pistole. Allora abbiamo adottato questa soluzione: all’arrivo ci facciamo consegnare i loro giochi e ne diamo loro altri, ad esempio peluches e palline colorate. Cerchiamo di abituarli a divertirsi e a stare insieme ai compagni senza simulare la guerra».  

I laboratori di sartoria

Suor Carol è responsabile dei tre grandi laboratori di sartoria nati per iniziativa dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) che propose il progetto alle salesiane cinque anni fa: le suore accettarono subito convinte che avrebbero potuto aiutare molte donne la cui vita era stata segnata da grandi tribolazioni. Il primo anno le allieve furono 14, oggi sono 100, sia musulmane (la maggioranza) sia cristiane. Molte sono fuggite da altre zone della Siria e hanno perso tutto, altre hanno subìto violenze inaudite, altre ancora sono rimaste vedove e sole. Il progetto prevede un corso annuale al termine del quale le neodiplomate hanno due possibilità: iniziare a lavorare in casa con una macchina da cucire fornita dalla scuola e vendere in proprio i loro manufatti oppure essere impiegate nel laboratorio della scuola ricevendo uno stipendio. In questo caso sono le suore che provvedono a vendere i capi di abbigliamento acquistando con il ricavato beni di prima necessità da distribuire alle persone indigenti.  

I collaboratori musulmani

Non fu un’impresa semplice allestire questi tre laboratori, ricorda suor Carol: «Fummo aiutate da un signore musulmano che si spese molto generosamente: non so cosa avremmo fatto senza di lui! Anche oggi possiamo fare affidamento su uno staff che comprende anche persone di fede islamica, come ad esempio le due maestre di cucito che si dedicano con molto scrupolo all’insegnamento, affiancate da alcune assistenti cristiane. Le allieve sono molto felici di poter ricominciare a vivere imparando un mestiere e di farlo in un ambiente accogliente: spesso dicono che qui c’è un autentico spirito familiare; si sentono finalmente a casa, accudite e protette».  

La pace futura

Pensando al futuro, suor Carol afferma: «noi tutti, ovviamente, preghiamo e speriamo che si giunga alla pace e che le moltissime persone fuggite all’estero possano fare ritorno in patria. La ricostruzione dovrà avvenire fuori e dentro le persone. Lo spirito familiare – spirito di accoglienza, rispetto, benevolenza – che lega ancora oggi molti cristiani e musulmani penso potrà costituire un mattone importante per questa ricostruzione». 

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