Il Santo e Grande Concilio ortodosso mezzo azzoppato che inizia oggi nell’Isola di Creta, comunque vada a finire, appartiene già ora in maniera eminente alla categoria dei segni dei tempi. Guardato alla luce della fede degli Apostoli, il testacoda vissuto in extremis dall’incontro di comunione a cui si preparavano da decenni Chiese che pure condividono lo stesso tesoro apostolico e sacramentale rende visibile almeno per un attimo il vertiginoso crinale lungo cui procede sempre nella storia la promessa della salvezza cristiana, affidata anche ai successori di quegli stessi apostoli, come a dei vasi di creta.
Gli ultimi “aggiornamenti” riguardo alle mosse e ai pronunciamenti ufficiali dei Capi delle Chiese ortodosse sono carichi di suggestioni. Il Santo e Grande Concilio si apre con la presenza dei Capi di dieci delle 14 Chiese autocefale ortodosse, sotto la presidenza del Patriarca ecumenico Bartolomeo di Costantinopoli. Dal punto di vista degli schieramenti e degli equilibri di forza, ha un peso non irrilevante la tormentata ma alla fine confermata partecipazione al Concilio della Chiesa ortodossa di Serbia, che pure, nel suo ultimo comunicato ufficiale, si riserva di abbandonare l’assise se essa si rifiuterà di «prendere in considerazione tutte le questioni, i problemi e le differenze» espresse nalle ultime settimane anche dai quattro Patriarcati ortodossi – antiocheno, bulgaro, georgiano e russo – che hanno deciso di non partecipare. Con il forfait esternato solo lunedì scorso, proprio il Patriarcato di Mosca ha in qualche modo lasciato cadere la maschera e si è manifestato come il vero soggetto forte delle iniziative che, coagulando malesseri e riserve di tipo diverso, hanno puntato a fermare e riorientare in extremis la macchina conciliare ormai avviata. Il Patriarca di Mosca Kirill, nel suo ultimo messaggio ufficiale, si rivolge intenzionalmente ai «Primati e ai rappresentanti delle Chiese locali ortodosse che sono convenuti a Creta» senza mai citare l’espressione «Concilio», derubricando la loro riunione a un «incontro che può fornire il suo contributo alla preparazione del Santo e Grande Concilio» e negando implicitamente all’assise di Creta il rango di Assemblea conciliare. In aggiunta, il Metropolita Hilarion di Volokolamsk, Presidente del Dipartimento per le relazioni esterne del Patriarcato di Mosca uomo chiave della politica ecclesiastica dell’apparato ortodosso russo, in un’intervista ha inviato avvertimenti poco bonari anche personalmente al Patriarca Bartolomeo, confidando che il Primus inter pares tra i Primati ortodossi «darà prova di prudenza» e rimarcando che «se il Concilio è convocato malgrado l’assenza di almeno quattro Chiese locali, ciò costituirà una brutale trasgressione del regolamento dello stesso Concilio, che stabilisce che esso è convocato dal patriarca ecumenico con il consenso di tutte le Chiese». Nel frattempo, da Kiev, i circoli nazionalisti ucraini cercano di approfittare della confusione e il Parlamento chiede ufficialmente al Patriarca Bartolomeo di riconoscere l’autocefalia della Chiesa ortodossa ucraina (attualmente sottoposta con uno statuto di autonomia alla giurisdizione del Patriarcato di Mosca), patrocinando un «Concilio di unificazione pan-ucraina» che porti a unire «tutte le Chiese ucraine ortodosse». Mentre da Creta, la macchina mediatica del Concilio, in mano a addetti stampa nordamericani, inizia a inondare la rete di comunicati e report confezionati secondo gli standard già collaudati su scala globale per meeting e kermesse spiritual-religiose di ogni risma.
Anche nei report sugli sviluppi dell’ultima ora, la questione del Concilio ortodosso, del suo mezzo naufragio o della sua agognata “riuscita” mediatica, continua a essere declinata perlopiù come una questione di politica (politichetta) ecclesiastica. I commenti e le narrazioni mediatiche, con rare eccezioni, puntano i riflettori su strategie, alleanze, prove di forza, pressioni, allineamenti più o meno scontati tra apparati politico-clericali. Mentre nei tribunali dottrinali online che infestano la blogosfera cattolica, le manipolazioni più spudorate e interessate prendono a pretesto i guai ortodossi per confezionare sberleffi a buon mercato sulle dinamiche della sinodalità ecclesiale, richiamate spesso anche da Papa Francesco. Ma le ricostruzioni deja vu che indugiano sulle mutevoli alchimie di potere ecclesiastico o negli errori tattici veri o presunti dei diversi apparati clericali raramente lasciano intuire la radice profonda della tribolazione ortodossa. Possono aiutare molto di più le intuizioni espresse da Bartolomeo I in una vecchia intervista del 2004 sulla rivista 30Giorni, in cui il Patriarca ecumenico, parlando dello scisma tra la Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli, vedeva la radice lontana di quella frattura nelle «prime manifestazioni del pensiero mondano nella Chiesa». Se gli ortodossi hanno sempre riconosciuto in tale infiltrazione la matrice della pulsione “egemonica” del Papato occidentale, adesso appare chiaro che tale pulsione non è neutralizzata dall’uno o dall’altro modello astratto di ecclesiologia “istituzionale”, e può facilmente servirsi anche di dinamiche e strumenti sinodali.
Riguardo alla vicenda delle Chiese ortodosse, il riferimento alla penetrazione del pensiero mondano nelle dinamiche ecclesiali ha poco a vedere con la tradizionale inermità o l’allineamento docile rispetto ai poteri civili nazionali che i polemisti cattolici da sempre rimproverano all’Ortodossia. I problemi del Santo e Grande Concilio non dipendono da Putin, che paradossalmente, proprio nel perseguire i suoi interessi, avrebbe forse potuto favorire un esito della vicenda più feconda per il cammino e la missione apostolica delle Chiese ortodosse. A creare affanni e ostacoli è invece la zavorra dell’orgoglio clericale in quanto tale, la hybris che contagia gli apparati ecclesiastici ogni volta che le Chiese, a qualsiasi livello, si costruiscono e perseguono un progetto di auto-sufficienza e di auto-affermazione sulla scena del mondo. Nessuna istanza ecclesiale è immune dalla tentazione di un simile snaturamento, come ripete anche Papa Francesco ogni volta che chiama in ballo la cancrena della «mondanità spirituale», e il «darsi gloria l’un l’altro». Nel tempo presente, occorre ammettere che tale avvitamento minaccia in forme particolari la Chiesa russa. Tenendo conto soltanto delle ultime settimane, e prima ancora che cominciassero le convulsioni sul Concilio ortodosso, il Patriarca Kirill aveva detto che la Chiesa russa adesso ha nientemeno il compito di «cambiare l’atteggiamento verso la fede e il cristianesimo in molti Paesi di Europa e d’America» ridando rilevanza pubblica globale al cristianesimo (19 maggio), mentre il Metropolita Hilarion lo scorso 19 aprile presentava la Russia di oggi come l’unica nazione di rilievo in cui «si empande la fede e la Chiesa», descrivendo un Occidente totalmente annichilita dall’ateismo e dal secolarismo, con una totale inversione di ruoli rispetto ai tempi del’Unione Sovietica. In un assalto di trionfalismo identitario, lo stesso Hilarion a fine maggio esaltava il Patriarcato di Mosca come titolare del «secondo posto nel mondo» come numero di credenti, dietro alla Chiesa cattolica, separando concettualmente i credenti russi da tutti gli altri cristiani di fede ortodossa.
Proprio chi ama con gratitudine sincera la grande avventura cristiana iniziata col battesimo del Gran Principe Vladimir sente l’urgenza di segnalare ai fratelli russi le derive dell’introflessione a cui ora sembrano così esposti. Ma lo scivolone vissuto dal Concilio ortodosso prima ancora del suo avvio fa pensare che non solo tra i capi dell’Ortodossia russa sia rarefatta la percezione del tempo escatologico vissuto dalla Chiesa di Cristo. «I Primati delle Chiese che mettono in primo piano questioni mondane come il primato d’onore» ha detto nel pieno delle convulsioni pre-conciliari Theodoros II, Patriarca ortodosso di Alessandria «dovrebbero scendere dai loro troni sontuosamente decorati e visitare l’Africa, per vedere cosa vuol dire essere poveri e umili figli di Cristo». Come è già accaduto altre volte nella storia, anche l’iniziale inciampo dell’assise conciliare ortodossa, il suo “fallimento” in termini di strategia umana, vissuto alla luce della croce, della discesa agli Inferi, della Risurrezione e della Pentecoste, potrebbe suggerire nuove vie di fuga per essere liberati dalla superbia clericale e camminare più spediti incontro a Cristo. Come ripeteva Matta el Meskin – il padre del rinnovamento del monachesimo copto al centro di un recente, ricco convegno organizzato dalla Comunità monastica di Bose -, l’unità tra cristiani, anche appartenenti alla stessa confessione, non nasce mai come spirito di «coalizione» per sentirsi più forti, unire le energie contro nemici veri o immaginati e dar rilevanza e potere alla Chiesa e agli uomini di Chiesa. Essa nasce sempre accompagnata dalla spoliazione dell’istinto di conservazione e della pretesa di camminare nella storia per forza propria, come realtà autosufficiente. L’unità in Cristo dei cristiani – scriveva Matta el Meskin «è uno stato di debolezza divina di fronte al mondo, sull’esempio del loro Maestro, che rinunciò al suo potere infinito per essere crocifisso da chiunque l’avesse voluto e nel modo che avesse voluto. E tutti i problemi che dividono la Chiesa – aggiungeva Matta – «dimostrano per l’appunto che il Signore non è presente in mezzo all’assemblea. E la sua assenza ci obbliga a rimettere in questione il fine della riunione, il metodo della ricerca e e le intenzioni dei membri riuniti (…). Il problema dell’unità è in modo netto e decisivo il problema della presenza del Signore», perché «solo il Signore può “fare dei due popoli un solo popolo e abbattere il muro che li separa (cf Ef, 2, 14)».