Nelle comunità cattoliche cinesi, dentro e fuori Shanghai, non si parla d’altro: non è certo caduto nel vuoto il quinto articolo che Thaddeus Ma Daqin, vescovo cattolico della metropoli cinese dal 2012, ha dedicato al suo noto predecessore, il Vescovo gesuita Aloysius Jin Luxian, a tre anni dalla sua morte e nell’imminenza dei cento anni dalla sua nascita. Una sorta di lungo saggio a puntate, diffuso pubblicato a partire dallo scorso marzo, dove nell’ultimo intervento, messo in rete il 12 giugno, il Vescovo Ma ritorna sulla sua vicenda personale, con parole e argomenti destinati a provocare una lunga scia di interrogativi e discussioni animate.
Gli apparati cinesi hanno impedito al 47enne Thaddeus Ma Daquin di esercitare in maniera appropriata il suo ministero pastorale, da quando lui, appena eletto vescovo ausiliare il 7 luglio 2012 con il consenso “parallelo” della Santa Sede e del governo di Pechino, alla fine della sua ordinazione episcopale dichiarò pubblicamente l’intenzione di abbandonare gli incarichi fino a quel momento ricoperti negli organismi “patriottici” di cui si serve la politica religiosa governativa, per dedicarsi interamente al ministero pastorale. Quella dichiarazione venne percepita dai funzionari che gestiscono la politica religiosa cinese come uno “schiaffo” e un “tradimento” della fiducia. Da allora, costretto a vivere in stato di residenza “sorvegliata” presso il seminario di Sheshan, il vescovo Ma non ha più celebrato messe in pubblico. Il Collegio dei vescovi cinesi (organismo anch’esso orientato dal potere civile e non riconosciuto dalla Santa Sede) lo aveva anche punito con il ritiro dell’autorizzazione a svolgere il ministero episcopale e una sospensione di due anni dal pubblico esercizio del sacerdozio. Tale misura punitiva è terminata già nel giugno 2014. Da allora, non si sono registrati cambiamenti sostanziali nella condizione di Ma Daquin, mentre la diocesi di Shanghai, senza guida episcopale, ha visto aggravarsi la sua condizione di impasse, segnata anche dalle divisioni nel clero diocesano: seminari e noviziati bloccati, casa editoriale diocesana ferma, ordinazioni sacerdotali rimandate, difficoltà a amministrare le cresime.
In questi anni, l’unico strumento di contatto di Thaddeus Ma Daqin con i fedeli è rimasto il suo blog, seguito con trasporto anche nei settori ecclesiali cosiddetti “clandestini”, quelli che tentano di rifiutare contatti con la politica religiosa governativa, e fino a qualche giorno fa consideravano proprio la dolorosa vicenda del vescovo di Shanghai come un caso emblematico di “resistenza” ai condizionamenti imposti dagli apparati politici alla vita della Chiesa.
Adesso proprio il blog di Ma Daqin sembra diventato pietra d’inciampo e segno di contraddizione per alcuni settori della comunità cinese. Da quel pulpito digitale, il vescovo di Shanghai già lo scorso settembre aveva raccontato il suo sogno di una stretta di mano tra Papa Francesco e il Presidente Xi Jinping, in quei giorni ambedue negli Stati Uniti («io non vedo l’ora che quella stretta di mano ci sia»). Sempre al suo blog, dal marzo scorso, Ma Daqin ha affidato una serie di lunghi e densi interventi dedicati al suo predecessore, il Vescovo gesuita di Shanghai Aloysius Jin Luxian (1916-2013). Nel suo insieme, il lungo scritto dedicato in cinque puntate è anche una sorta di manifesto: puntando i riflettori sul suo predecessore, Thaddeus ha rilanciato le intuizioni più feconde espresse dal grande vescovo gesuita sui criteri che conviene seguire nelle relazioni tra Chiesa cattolica e società cinese. E sulle orme di Jin ha tratto anche dal grande tesoro della Tradizione e della storia ecclesiale criteri per orientare il cammino della cattolicità cinese nel tempo presente, mentre si ridefiniscono i suoi rapporti con l’attuale assetto politico-culturale dell’ex Celeste Impero. In alcuni passaggi, le riflessioni affidate alla rete dal vescovo Thaddeus nella sua commemorazione a puntate di Jin allargavano l’orizzonte ben al di là delle dialettiche fuorvianti in cui di solito vengono confinati i discorsi sulla condizione della cattolicità cinese. Come quando per l’auspicato incontro tra Vangelo e cultura cinese indica il giovane vescovo impedito nelle sue funzioni ha indicato a modello i Padri della Chiesa Ambrogio, Giustino e Agostino, che trovarono vie efficaci e feconde per proporre l’annuncio cristiano nel contesto culturale e politico dell’impero romano e della sua decadenza. Ma poi, a destare maggiore attenzione e a scatenare reazioni è stata l’ultima puntata della serie, quella pubblicata 12 giugno.
In essa, riferendosi alla vicenda particolare di Shanghai, Ma Daqin valorizza i risultati ottenuti da Jin nella guida della diocesi anche in virtù del suo modus operandi collaborativo nei confronti dell’Associazione patriottica, e ritorna anche sulla sua complicata e dolorosa vicenda personale. Tra le altre cose, definisce «poco saggia» la decisione di dimettersi dall’Ap nel giorno della sua ordinazione episcopale. Fa intendere che quel suo gesto è stato anche l’effetto di pressioni subite «dall’esterno», che lo hanno portato a pronunciare parole e a compiere gesti «non corretti» nei confronti dell’Associazione patriottica, il cui ruolo viene da lui definito «imprescindibile» nell’attuale status della Chiesa in Cina. Per questo, il vescovo Ma si dice «interiormente inquieto» per aver danneggiato «l’eccellente processo di sviluppo della Chiesa di Shanghai, che il vescovo Jin aveva costruito nel lungo periodo». E auspica di poter fare gesti concreti per «correggere gli errori».
I passaggi dell’intervento del vescovo Ma, relativi agli «errori» da lui compiuti nei confronti dell’Associazione patriottica hanno provocato diversi interrogativi negli ambienti ecclesiali dentro e fuori la Cina. C’è chi si chiede se quelle frasi di ritrattazione e i riconoscimenti al ruolo dell’Associazione patriottica siano davvero attribuibili al vescovo, e chi si domanda quale sia l’eventuale obiettivo di una sortita così netta. Nel frattempo, settori e commentatori della blogosfera cattolica che prima esaltavano Ma Daqin come l’eroe della resistenza alla politica religiosa cinese già intonano sentenze di condanna per il nuovo, presunto “traditore” vendutosi al nemico.
In assenza di informazioni certe, conviene tener presenti alcuni elementi e fattori oggettivi che connotano il suo “caso”, dall’inizio fino agli ultimi sviluppi.
Prima di diventare vescovo, lo shanghaiese Thaddeus aveva studiato nel seminario diocesano di Sheshan ed era avvezzo a trattare anche col potere politico in virtù degli incarichi ricoperti in una diocesi che, sotto la guida “ufficiale” del vescovo Jin (consacrato vescovo nel 1985 senza il consenso della Sede apostolica, che lo ha “legittimato” solo nel 2004) aveva sempre privilegiato nei confronti delle autorità civili il dialogo allo scontro. Negli anni dell’episcopato di Jin la locale Associazione patriottica dei cattolici cinesi a Shanghai si è sempre mossa in buona sintonia col vescovo. La stessa elezione del giovane Thaddeus come successore in pectore di Jin alla guida della diocesi era avvenuta con il consenso degli organismi patriottici, oltre che nella piena e nota comunione con il Vescovo di Roma. Nell’articolo pubblicato il 12 giugno, lo stesso Ma Daqin ricorda di aver preso parte a tante piccole e grandi iniziative in collaborazione con l’Associazione patriottica. Al momento della sua ordinazione, la sua intenzione dichiarata di voler abbandonare ogni coinvolgimento diretto negli organismi patriottici forse fu valutata in maniera esorbitante sia dagli apparati governativi, sia da quelli che da subito la esaltarono come gesto di rifiuto della politica religiosa cinese.
Un altro dato oggettivo, riconosciuto implicitamente dall’articolo di Ma Daqin, è la situazione di sofferenza generale in cui la diocesi di Shanghai è caduta dopo la morte di Jin Luxian e dopo le dure misure punitive applicate al suo successore designato. L’articolo di Ma potrebbe rappresentare un tentativo – più o meno felice, più o meno “suggerito” o concordato – di uscire dallo stallo, e creare le condizioni affinché la Chiesa di Shanghai possa riprendere il suo cammino ordinario; a volte l’ottimo (ideale che non tiene conto della realtà storica) può essere nemico del bene oggi possibile. In ogni caso, le sofferenze apostoliche vissute dal giovane vescovo meritano il rispetto, la comprensione e la vicinanza di tutti quelli che hanno a cuore l’annuncio del Vangelo in terra cinese. Gli articoli e le riflessioni pubblicati in questi anni sul suo blog hanno tante volte dato l’impressione di una spiritualità sacerdotale maturata e resa più vivida nel tempo dell’isolamento. Dalla sua stanza nel seminario di Sheshan, postando preghiere e commenti nella rete digitale, Ma Daqin ha comunque confortato la fede di tanti, e così, nel modo che gli era possibile, ha anche guidato la sua diocesi. La missione che Cristo ha affidato alla Sua Chiesa può a volte procedere nel mondo anche attraverso strade simili, paradossali e misteriose. Guardando alla vicenda di Ma Daqin, conviene innanzitutto tener conto di questo. Riconoscendo che solo uno sguardo avvezzo a cogliere e seguire il dinamismo proprio della vita apostolica nei suoi sentieri sempre nuovi potrà far maturare buoni frutti per la vita dei cristiani cinesi anche attraverso il rinnovato dialogo tra la Santa Sede e il governo di Pechino.