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Perché nell’arte religiosa i santi non sorridono mai?

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Nancy Bauer/Shuttertstock

Elizabeth Pardi - pubblicato il 15/06/16

Non sempre la vera gioia ha un volto allegro

Per diversi anni confusi della mia vita, la suoneria del mio telefono è stata Only the Good Die Young di Billy Joel. Non dimenticherò mai la faccia che ha fatto un giorno mia madre, cattolica fervente, quando ho ricevuto una chiamata. Il verso “I’d rather laugh with the sinners than cry with the saints” (preferirei ridere con i peccatori piuttosto che piangere con i santi) ha interrotto la quiete, con tono beffardo verso le immagini sacre che adornavano casa nostra. Ho subito messo il telefono in modalità silenziosa, ridendo sotto i baffi della “tristezza” che potevo leggere sul volto di mia madre.

Quel testo era un riflesso adeguato di ciò che, all’epoca, mi teneva lontana dalla fede. Vivevo la mia vita ritenendo che le persone che lottavano per essere sante avrebbero ottenuto soltanto dolore e sofferenza, e che coloro che invece non si preoccupavano troppo della presenza del peccato nella propria vita fossero in grado di godersela davvero. Inutile dire che preferivo la compagnia di questi ultimi.

Quest’idea si faceva ancora più insistente nella mia mente nelle poche occasioni in cui andavo in chiesa. Mi sentivo circondata da statue di santi la cui espressione mi ricordava le immagini del “Prima” nelle pubblicità dell’antidepressivo Prozac. Mi sembravano stanchi, disperati e cupi, nella migliore delle ipotesi. I fedeli – credevo – erano oltremodo depressi, mentre io ero in cerca della felicità.

Ma poi lo Spirito Santo è piombato nella mia vita e ha scardinato totalmente i miei pensieri sbagliati. Ha rivelato il profondo desiderio che Dio ha che io sia autenticamente felice, anche e forse soprattutto in questo momento particolare in cui versa il mondo. Ho attinto speranza dalla preghiera di S. Teresa d’Avila, in cui ha dichiarato: “Dai santi cupi, seri e arcigni, liberaci, o Signore”.

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In modo simile, papa Francesco ha fatto luce sulla natura gioiosa della vita cristiana, dichiarando con insistenza che “un evangelizzatore non dovrebbe avere costantemente una faccia da funerale”.

Una volta che ho davvero iniziato a credere che “Dio è il più felice degli esseri e ci ha creati per condividere la sua felicità”, per dirla con le parole di Sant’Agostino, mi sono incuriosita sul motivo delle espressioni abbattute sui volti delle immagini religiose. Perché gli artisti hanno ritratto questi uomini e queste donne di Dio con un aspetto così depresso? Le rappresentazioni dei santi non dovrebbero illustrare la gioia di Cristo che queste persone avevano nei cuori, e con cui hanno riempito il mondo?

La mia risposta è arrivata dedicando del tempo allo studio delle immagini della Sacra Famiglia nella nostra chiesa. Gesù, di circa cinque anni, era teneramente appoggiato sul petto di S. Giuseppe. Entrambi sorridevano dolcemente mentre Maria, che stava anche lei sorridendo, faceva il solletico ai piedini di suo figlio. Questa è la gioia che le opere religiose dovrebbero rappresentare, ho pensato tra me e me. Poi ho compreso cos’è che i santi fanno in gran parte delle raffigurazioni religiose: pregano.

Sebbene questa specifica immagine abbia mostrato la gioia di una famiglia allegra in un momento di gioco, l’azione più comune dei soggetti rappresentati nell’arte religiosa è l’unione della loro mente e del proprio cuore a Dio. Questa unione, come sappiamo, di solito supera tutto ciò che evoca un’espressione fisica di emozioni, come può essere una risata o un sorriso.

Certo, la preghiera può comunque essere – e spesso è – un’esperienza piena di gioia, perché il Suo amore incondizionato e puro viene sparso su di noi. Ma è un momento di profonda intimità, che trascende dalle reazioni fisiche del corpo che trasmettono felicità.

Un sacerdote che conosco, particolarmente acuto, ha descritto la tipica espressione facciale nelle rappresentazioni religiose come “serietà stoica ma coinvolgente”, ponendo enfasi sulla pace interiore piuttosto che sulle passioni esteriori.

C’è un articolo che spiega le espressioni solenni dei santi nelle icone religiose: “La vera gioia è qualcosa che viene da Dio ed è quindi eterna. I piaceri sono, per definizione, temporanei e non portano alla vera felicità. Il sorriso è il riflesso della gioia effimera, perché anch’esso è temporaneo”.

Questo non vuol dire assolutamente che sorridere è inutile. Anzi, Madre Teresa ha parlato molto del potere di un sorriso, dicendo anche che questo gesto è l’inizio dell’amore. Noi siamo, dopotutto, dele creature corporee dotate della capacità di esprimersi attraverso il volto e altri segnali fisici analoghi.

Mi sono resa conto che la sfida è di guardare oltre le espressioni del volto, quando abbiamo di fronte immagini di santi o figure religiose che non sprizzano gioia da tutti i pori. Siamo invitati a riflettere sui punti più profondi – a livello intellettuale ed emotivo – a cui sono arrivati questi uomini e donne, raggiungendo una pace tale da andare oltre al semplice sorriso.

Non sono tristi. Non sono disperati. Sono persi: persi nell’amore immortale e inspiegabile del loro creatore.

[Traduzione dall’inglese a cura di Valerio Evangelista]

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