Paola Bonzi ci ha raccontato la sua storia e quella del Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli di cui è fondatrice e presidentePaola Bonzi è una donna speciale. Ha fondato nel 1984 il Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli all’interno dell’omonima Clinica di Milano. Il CAV (Centro di aiuto alla vita) è un’associazione di volontariato che si impegna nel sostegno alla maternità, aiutando economicamente e psicologicamente le donne che si trovano in difficoltà per una gravidanza, affinché scelgano di non abortire e vivano la dolce attesa con gioia e serenità. Paola Bonzi, moglie, madre e consulente familiare, scelse di fondare questa struttura all’interno dell’ospedale Mangiagalli per stare fisicamente nel luogo dove le difficoltà legate alla gravidanza sono più grandi, e dal 2000 il CAV si è arricchito del consultorio familiare Genitori oggi, situato di fronte l’ospedale.
È la stessa Paola Bonzi che ci ha raccontato la sua storia e quella del Centro di aiuto alla Vita di cui è presidente e fondatrice.
Cosa la spinse nel 1984 a fondare il Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli?
«Bisogna ritornare indietro di quattro cinque anni perché il tutto è cominciato con il referendum dell’1980-81 sulla legge 194. Allora c’eravamo mobilitati per raccogliere le firme e andare a fare conferenze in giro, cose di questo tipo. E avevamo contemporaneamente fondato un Centro di Aiuto alla Vita a Milano, che attualmente è il Centro di Aiuto alla Vita Ambrosiano. Lavorando lì mi accorgevo che non arrivavano persone indecise se tenere o no il bambino: venivano mamme povere a chiedere di essere aiutate con vestitini, latte, pannolini. Io volevo incidere invece là dove le donne volevano abortire, e così nell’84 – stimolata anche da quanto accadeva in Polonia con Solidarność, dove volontarie avevano iniziato a stare fuori dall’ospedale per dire a quelle che vi entravano per interrompere la gravidanza che erano lì per aiutarle e sostenere loro e i loro bambini – ho pensato che anch’io volevo fare la stessa cosa, e la volevo fare dentro l’ospedale milanese, emblema contemporaneamente della maternità e dell’abortismo. Alla Mangiagalli infatti si assiste a un modo di funzionare un po’ schizofrenico, se si pensa che qui è stato aperto anche il primo ambulatorio per la 194. Così scrissi una semplice nota al Consiglio di amministrazione di allora, per chiedere di “entrare” all’interno della clinica e, incredibilmente, ci dissero di sì. Avvenne una cosa straordinaria, perché allora il discorso sull’aborto era tutta una questione di partiti, ed erano i rappresentanti dei partiti a sedere nel consiglio di amministrazione. Pertanto sulla carta il voto doveva dare un risultato negativo, e invece venne fuori un sì, votarono un’altra volta e risultò un altro sì: quindi “entrammo e aprimmo la porta” in dodici».
Come è andata l’esperienza di sostengo alle mamme e alla vita in questi 32 anni di volontariato?
«Sono stati anni sorprendenti perché non pensavamo di riuscire in un’impresa così grande, ero sola e senza quattrini – punto dolente – e quindi in questi anni abbiamo fatto tanta fatica: però sono nati fino ad oggi 19.000 bambini! Noi siamo aperti e presenti in ospedale tutti i giorni dalla mattina alle sera, e accogliamo tutti coloro che hanno bisogno di aiuto e desiderano essere ascoltati».
Le donne come vengono a conoscenza del Cav?
«È assolutamente tutto un passaparola, donne che sono state sostenute che a loro volta dicono alle altre “vai là che ti aiutano”, poi c’è anche qualche medico, qualche ostetrica che le manda di sopra da noi. L’ultimo caso è stato addirittura quello di un anestesista che, mentre visitava una signora perché potesse abortire, l’ha indirizzata al Centro. Oggi siamo 42 operatori e abbiamo aperto di fronte l’ospedale un consultorio familiare. Le donne del primo trimestre che possono ancora appellarsi alla legge 194 vengono da noi che siamo proprio dentro la clinica Mangiagalli; invece quelle che portano avanti la gravidanza e fino al compimento dell’anno di vita del bambino si rivolgono al consultorio dove sono seguite mensilmente con dei colloqui, dove possono fare tutte le visite necessarie, il corso di preparazione al parto, fare l’incontro con l’ostetrica, il massaggio del neonato, partecipare al gruppo bebè, sempre monitorate con degli incontri di tipo psicopedagogico. Inoltre noi effettuiamo una enorme distribuzione di beni essenziali per sostenere le mamme: questo ci porta sull’orlo del collasso perché erogare i pannolini fino al compimento dell’anno del bambino rappresenta un costo notevole se pensiamo che abbiamo in carico oggi 2.300 donne. Tutto questo comporta un bilancio di spesa di circa un milione e seicentomila euro: le lascio immaginare cosa vuol dire raccogliere tanti fondi…».
In che modo vivete l’esperienza di questo lavoro?
«Noi siamo tutti professionisti: consulenti familiari, psicologi, pedagogisti, educatori, assistenti sociali. Quindi c’è un momento molto professionale che è quello del colloquio che ha un suo preciso protocollo, e poi invece c’è un momento più “sciolto” per cui si chiacchiera con le persone e a me sembra di avere tante figlie, perché poi sono tutte molto affettuose. È un lavoro molto particolare che prende anche la vita degli operatori, perché poi ciascuno rivive le sue esperienze, la sua maternità, è coinvolto nella storia delle persone che incontriamo ed è difficile non piangere con chi piange. Però ci vuole la giusta misura tra i due aspetti».
Le donne che incontra conoscono i problemi che provoca un aborto?
«Quando incontro alcune donne molto decise ad abortire le approccio dicendo: “non creda che tutti i problemi si risolvano andando ad abortire, perché l’aborto crea altri problemi”, e allora racconto un po’ di cose che possono andare a verificare su internet per accertarsi che non dico balle. L’aborto lascia segni notevolissimi nell’85% delle donne. Qual è il problema? è che non viene condotto un colloquio di chiarificazione come si deve. Se le cose non vengono dette, ovviamente non vengono conosciute, e non vengono dette per una questione ideologica. La 194 ha sempre scatenato battaglie politicizzate ed ideologizzate: questo è un disastro perché quando si parla di questo’argomento si alzano muri che impediscono di cogliere la verità del problema. Io vedo che se si lavora bene, se si parla e si sta con loro in un certo modo, su dieci che arrivano al Centro nove poi non vanno ad abortire. Ciò vuol dire che il nostro è il modo corretto di affrontare un momento tanto difficile per la donna».
La fede è stata importante per aiutarla a portare avanti questa straordinaria esperienza?
«Noi come associazione non siamo appartenenti a nessun gruppo ecclesiale o politico, però nel privato ciascuno vive la sua vita personale, e quindi io ho sempre considerato il mio impegno una risposta al battesimo. Nel senso che mi era stato dato qualcosa con il battesimo, e qualcosa dovevo restituire: quindi ho sempre fatto ciò per cui mi sono battuta con questo spirito».
Ci può raccontare una storia emblematica dell’attività del Cav?
«Una signora di circa 40 anni si è trovata sola al mondo e disperata. È stata da giovane una ballerina, per anni lontana dai genitori e dagli affetti per studiare e lavorare… quando è rimasta incinta il compagno l’ha abbandonata e tutti, compresi gli amici, l’hanno spinta ad abortire. Lei per due volte si è prenotata per interrompere la gravidanza e poi non l’ha fatto: l’ultima volta che l’ho vista, quando mancava ancora una settimana al termine ultimo per interrompere la gravidanza, mi ha detto che ha deciso di tenere il bambino, e sta facendo progetti anche se è consapevole che le cose non saranno facili. Io le ho detto che anche se non lo facciamo di solito, se servirà le metteremo a disposizione anche una baby sitter. Quello che serve in questi casi non è seguire uno schema di intervento rigido, ciò che serve è un po’ elasticità nel progetto di aiuto. Così è andata via sollevata, contenta e rincuorata e ora aspetto che torni».
Quale desiderio potrebbe esprimere per il futuro del Cav?
«Noi attualmente abbiamo in carico 2.300 donne, però mi piacerebbe fare di più ed altro, come una cooperativa di lavoro, un tipo di accoglienza strutturata per le coppie perché le donne che vivono insieme ad un compagno non se la sentono di stare da sole nelle strutture dove attualmente le possiamo ospitare. L’idea fondamentale è di aiutarle meglio e di più perché sappiamo che questo sostegno è fondamentale per rendere possibile la nascita di una nuova mamma e di una nuova famiglia».
LEGGI ANCHE: Una “partigiana della vita” come Presidente