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Abbiamo adottato un bambino. Le cose sono andate male fino a quando abbiamo compreso che…

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Shutterstock / Kichigin

Orfa Astorga - pubblicato il 08/06/16

L'amore è più potente del legame di sangue

Era un edificio austero, con camere frequentate da poche persone. Un luogo silenzioso e avvolto da un alone di tristezza, infranto soltanto dalle grida dei bambini.

Mia figlia adolescente è attiva nel lavoro sociale, e io l’ho accompagnata in una delle sue visite. Si è presentata ai bambini con doni, canti e balli, tentando di portare un po’ di gioia.

La osservavano, senza alcuna espressione sui loro volti, mostrandosi irrigiditi da quella dimostrazione di affetto, che non riuscivano a comprendere pienamente. Mia figlia ha fatto del suo meglio, ma alla fine alcuni sorrisi accennati sono stati il massimo riconoscimento ottenuto.

In quel momento si è avvicinato a me un bambino sporco e vestito male, con il moccio che colava dal volto. Ha stretto la mia mano, senza volerla lasciare. Per me stato un tuffo al cuore. Ho chiesto il suo nome: Toñito. Era più grande di quanto appariva, perché fortemente malnutrito.

Dopo quelle attività ce ne siamo andati, con il cuore appesantito. Abbiamo pensato alla sofferenza di quei bambini, che deve essere stata molto intensa, soprattutto nei momenti di profonda solitudine.

Io avevo quattro figli e vivevo in una condizione di benessere. Per me il dolore degli altri era una realtà. Donavo cose e offrivo il mio tempo al prossimo, ma non prendevo in considerazione l’idea di lasciarmi coinvolgere ulteriormente, sebbene interiormente fossi mossa a compassione.

Ma non sono riuscita a dimenticare Toñito, e una voce dentro di me mi ha chiesto di fare qualcosa. “Beh”, ho pensato, “se è arrivato il momento, farò richiesta di adozione, aiuterò uno di quei bambini; e penso che sia Toñito ad avere più bisogno di me”.

Indecisioni, riunioni di famiglia, l’entusiasmo dei miei figli, poi ancora dei dubbi… non sono mancate le opinioni negative di persone più o meno vicine a noi, che mi hanno detto di accontentarmi dei figli che avevo, poi hanno tirato in ballo il patrimonio genetico del bambino e infine hanno raccontato storie negative di altre adozioni…

Ma la decisione finale era presa, nonostante avessi ancora dei dubbi nel mio cuore: lo avremmo adottato… Dopo varie procedure e formalità, e dopo aver insistito sul voler adottare proprio Toñito, alla fine ce l’abbiamo fatta.

È stato così che Toñito ha ricevuto il nostro cognome e ha preso un posto nella nostra vita. Eravamo consapevoli che i loro genitori non erano morti, ma che era stato abbandonato; abbiamo dunque pensato che il bambino non sarebbe mai stato davvero nostro figlio, ma soltanto qualcuno che abbiamo voluto aiutare.

Pensavamo che il rapporto genitori-figlio e la forza del sangue fossero legami tali da non poter essere distrutti; che nessuno può smettere di essere figlio dei suoi genitori, né padre dei propri figli. Abbiamo dato più importanza a questo legame che all’amore; questo mio approccio e questa mia diffidenza sono stati degli errori.

Da questo punto di vista abbiamo avuto difficoltà a mostrare affetto, perché il bambino ha mostrato sorpresa e confusione.

I suoi occhi sfuggenti mostravano tutta la diffidenza causata da ciò che aveva subito. Al nostro affetto spesso rispondeva con il silenzio o, a malapena, con un abbraccio.

Lentamente, con molto incoraggiamento, ha iniziato a rispondere con dei timidi sorrisi. Cercando malinconico, nei nostri volti e nei nostri occhi, un qualcosa di perduto. Un qualcosa che, senza sapere cosa fosse, aveva bisogno di una risposta.

Provando a trovare una spiegazione all’atteggiamento del bambino, ho cominciato a capire che la sola affinità biologica non è garanzia di nulla. E che l’amore dei genitori – nato nei loro cuori come frutto dell’amore tra di loro – è superiore alla loro capacità di riprodursi.

Era questo ciò che Toñito stava cercando in noi. Un sentimento così forte da durare tutta la vita e anche oltre, mentre altri fattori che determinano le relazioni umane si possono fermare massimo alla morte… quando ci riescono.

Poi ho capito una cosa: avevamo preso la decisione di adottare Toñito soltanto con la testa, dando la priorità al legame di sangue. E abbiamo sbagliato. Questo pregiudizio ha fatto in modo che lui continuasse ad sentirsi respinto. Ma il vero vincolo è quello che viene dal cuore, un amore che lui ha cercato con tanta malinconia. Un amore per il quale lui è nato e al quale ha sempre avuto diritto, nonostante fino a quel momento gli fosse stato negato.

Ho sperimentato chiaramente che la cosa più importante è la forza dell’amore, che rientra nell’ordine stabilito da Dio.

Allora, e solo allora, mio marito ed io abbiamo davvero aperto i nostri cuori al bambino affinché Toñito fosse davvero nostro figlio. Una essere che deve manifestare l’amore che esiste tra noi e che debba a sua volta continuare ad amare.

Abbiamo continuato a frequentare l’orfanotrofio per portare un po’ di gioia. Iniziando a lottare per esercitare un qualche tipo di influenza contro quell’ambiente di degradazione e falsificazione dell’amore, in cui le persone vengono rese degli oggetti, generati come sola conseguenza degli istinti umani.

Abbiamo anche preso posizione contro l’attacco spietato al matrimonio e alla famiglia. Perché è in queste istituzioni che prende vita l’amore, il più sublime dei sentimenti che la creatura più perfetta della creazione sia in grado di provare.

Tutti i bambini abbandonati devono essere, nell’ordine naturale stabilito da Dio, la realizzazione dell’amore che marito e moglie hanno tra loro nel matrimonio; l’amore dell’uomo e della donna che prosegue nei loro bambini, che a loro volta continuano ad amare; l’amore la cui assenza diventa un grido lancinante tra tante orecchie sorde; il grido di tanti esseri abbandonati e condannati dai loro genitori all’orfanotrofio, a finire nelle mani di mercenari, o all’imbarazzo di non essere riconosciuti. E, talvolta, neanche nati.

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Valerio Evangelista]

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