Sul pericolo di confondere la vocazione con il desiderioMi sembra che i ragazzi oggi facciano tanta fatica a distinguere tra le diverse attività mentali, così non siamo più capaci di distinguere tra emozioni e pensieri, tra ispirazioni e desideri, tra imperativi etici e inclinazioni naturali. Immagino che sia il tributo che paghiamo all’aver messo al centro il soggetto, relativizzando tutto all’io, io, io. Imperante narcisismo che ci fa decodificare tutta la realtà in funzione di noi stessi.
Fatto sta che questo ha ricadute disastrose quando si parla di vocazione, appunto perché si confonde la vocazione con il desiderio, così se una fanciulla o un giovanotto si interrogano sulla loro vocazione la loro idea di discernimento è quella di cercare di capire cosa desiderano davvero. Andrebbe benissimo se si trattasse di scegliere quale professione intraprendere o quale scuola frequentare, quando cioè la domanda riguarda solo noi stessi e la nostra vita, ma una vocazione religiosa è tutt’altra cosa, è per l’appunto una chiamata, è cioè aver a che fare con un Altro, non con se stessi. Una vocazione religiosa è una vita di relazione con un tu, in cui questo Tu si prende tutto, ma proprio tutto, di te, e allora la prima domanda non può essere “io cosa desidero?”, ma piuttosto: “è vero che tu mi desideri?”.
È come in un fidanzamento del resto, chi si siederebbe a considerare l’ipotesi di un matrimonio senza prima aver verificato di essere davvero amato/a dall’altro? Riflettevo su questo perché ieri ripensavo alla mia storia e mi rendevo conto che se io sono diventato sacerdote non è stato certo perché lo desideravo io! Anzi, io sono stato letteralmente sedotto e corteggiato, fino a trovarmi stretto in un angolo senza più poter ignorare quella voce che mi chiamava e sono entrato in seminario pieno di ansia e paura e pure durante gli anni della formazione ho costantemente recalcitrato, mordendo il pungolo che mi spingeva a crescere, ribellandomi costantemente ai miei superiori che per fortuna hanno avuto tanta pazienza con me. E per dirla tutta alla fine del primo anno dopo l’ordinazione ero mortalmente depresso ed ero convinto di aver sbagliato tutto.
Mi fanno paura quei ragazzi che sembrano nati per fare i preti o quelle bimbe che non potresti vedere in altro modo che come suore. Quelli che desiderano tanto farsi suore o preti io, se fossi un formatore, li scarterei a priori. Non credo che sia un caso se tutti i migliori preti che conosco tutto volevano fuori che farsi preti!
Naturalmente questo significa anche che i formatori dovrebbero stare ben attenti a non farsi ingannare dalle apparenze. Il novizio o il seminarista formalmente perfetto, sempre preciso negli orari, inappuntabile nel vestire e in tutte le mille prescrizioni non scritte della vita comune, mai ribelle, mai sopra le righe, non è affatto detto che sarà un buon prete o un buon religioso.
Ovviamente non è automaticamente vero neppure il contrario, non sto dicendo che si deve per forza essere ribelli, sto dicendo però che la caratteristica di una vera vocazione è fuori di sé, ciò che rende vera una chiamata non è qualcosa che sta dentro di noi, ma in Colui che ci chiama. Non è noi stessi che stiamo cercando, ma Lui, non la nostra gioia, ma la Sua, non il nostro desiderio, ma il Suo.