«Pensando al prossimo papa: un uomo che, dalla contemplazione di Gesù Cristo, e dalla adorazione di Gesù Cristo, aiuti la Chiesa a uscire da sé, verso le periferie esistenziali». C’era anche questo memento per il papa prossimo venturo nel discorso di pochi minuti che il cardinale Jorge Mario Bergoglio pronunciò davanti agli altri porporati, lasciandoli ammutoliti, negli incontri con cui il Collegio cardinalizio si preparava al conclave del marzo 2013. Nel breve intervento il porporato argentino aveva prefigurato il volto di una Chiesa «chiamata a uscire da se stessa, e andare verso le periferie. Non solo quelle geografiche, ma anche le periferie esistenziali: quelle del mistero del peccato, quelle del dolore, quelle dell’ingiustizia, quelle dell’ignoranza e dell’indifferenza religiosa, quelle del pensiero, quelle di ogni miseria». Da quel conclave, Bergoglio uscì come papa Francesco. Da allora, la dicotomia centro-periferia ha fatto un ingresso veemente nel magistero del primo pontefice venuto da una megalopoli dell’emisfero sud. Seguendo la pista del frasario “periferico” di Bergoglio, si incontrano indizi preziosi sulle sorgenti reali della ripartenza evangelica che l’attuale vescovo di Roma ha innescato anche sull’asse dei rapporti Chiesa-mondo. E si trovano antidoti potenti ai conformismi convergenti con cui detrattori e lustrascarpe saccheggiano il lessico bergogliano con accanimento, nel tentativo di confinare l’attuale papa nella caricatura del demagogo.
La prospettiva Magellano
Nell’America latina degli anni Settanta e Ottanta, il dualismo centro-periferia aveva rappresentato uno snodo cruciale nel pensiero di un drappello d’intellettuali di matrice marxiana e keynesiana, da Samir Amin ad Andrè Gunder Frank, dal brasiliano Celso Fortado all’argentino Raùl Prebisch. Tale dualismo caratterizzava anche la teoria della dipendenza da essi condivisa, che vedeva nella povertà dei paesi in via di sviluppo l’effetto del modo distorto e ingiusto con cui questi venivano integrati nel sistema globale, dominato dal primo mondo occidentale. I teorici della dipendenza denunciavano una sistema di relazioni internazionali di derivazione neocoloniale, architettato per prorogare ad libitum la sottomissione e lo sfruttamento dei paesi periferici da parte di quelli avanzati mediante l’economia, il controllo dei media, le grandi operazioni finanziarie, la gestione dell’immaginario collettivo globale. Con i paesi poveri individuati come destinazione finale delle tecnologie obsolete scartate dai paesi dominanti.
Nell’ansia diffusa di rinvenire ascendenze intellettuali profonde nelle parole e nei gesti di papa Francesco, c’è chi ha proposto punti di contatto più meno impliciti tra le periferie bergogliane e i teorici della dipendenza. Operazione suggestiva, ma fuori bersaglio: l’unico strumento analitico atto a cogliere nella tensione centro-periferia un indicatore di come vanno le cose nella Chiesa e nel mondo Bergoglio lo attinse dalla filosofa argentina peronista Amelia Podetti (1928-79). L’esperta rioplatense di Hegel, che insegnava filosofia all’Università Statale di Buenos Aires e in quella gesuita del Salvador ed era considerata vicina alla fazione terzomondista, non marxista della Guardia de Hierro, ripeteva che l’Europa si era “vista” in maniera diversa dopo il viaggio compiuto da Ferdinando Magellano per circumnavigare la terra. Guardare il mondo da Madrid non era come guardarlo dalla Terra del Fuoco: la visuale era più ampia e si potevano vedere cose nascoste a chi guardava tutto dal “centro” dell’impero.
Le considerazioni semplici, formulate da una professoressa conosciuta a Buenos Aires negli anni in cui era sacerdote e provinciale dei gesuiti, vengono oggi richiamate da Bergoglio quando è chiamato a dar ragione dei suoi insistiti riferimenti alle periferie. «La realtà si vede meglio dalla periferia che dal centro», ha spiegato Francesco nell’intervista rilasciata a un bollettino parrocchiale di Villa la Càrcova, baraccopoli della Gran Buenos Aires. «Normalmente» ha aggiunto Bergoglio in quella conversazione con i villeros diventati intervistatori papali – «noi ci muoviamo in spazi che in un modo o nell’altro controlliamo. Questo è il centro. Nella misura in cui usciamo dal centro e ci allontaniamo da esso, scopriamo più cose» [1].
Il guardare alle periferie di papa Francesco non è l’esito di uno sforzo, non coincide con una tattica pastorale e geopolitica da imporre alla macchina ecclesiastica, non punta ad affermare una concezione del mondo. È prima di tutto una semplice opzione ermeneutica, consigliabile perché conviene, perché è vantaggiosa e feconda. Consigliabile a tutti, nessuno escluso, compresi i leader delle superpotenze e gli affiliati all’élite economica globale.
Nel suo ministero pastorale, prima e dopo l’elezione papale, Bergoglio ha potuto verificare in maniera costante e sempre più sorprendente che la realtà si vede meglio dalle periferie che dal centro. A cominciare da quelle intese nel senso più comune, le periferie urbane della sua città.
Immaginari metropolitani
Bergoglio il porteño intuisce presto che nelle grandi aree marginali delle megalopoli si giocano partite cruciali – presenti e future – per il destino del mondo e per l’annuncio cristiano. Se dalla periferia «la realtà si vede meglio», conviene incontrare gli uomini e le donne che lì vivono e faticano, così come sono. Nei grandi conglomerati urbani che da decenni continuano ad attrarre milioni di nuovi abitanti provenienti dai villaggi e dalle province rurali, dove si frantumano e si mescolano i monolitismi culturali e si sperimentano nuove dinamiche di esclusione e di manipolazione.
Già dal 2007, valorizzando le intuizioni del sacerdote Jorge Eduardo Scheinig, l’allora arcivescovo di Buenos Aires aveva stimolato nella sua diocesi una riflessione condivisa sulla questione urgente della missione pastorale nei nuovi contesti urbani. Mettendo da parte ogni presunzione di “riconquista neoclericale” delle moltitudini urbanizzate, Bergoglio e i suoi collaboratori prendevano atto senza patemi che è finito il tempo delle monoculture omologate, che nelle città prendono forma, convivono e si sovrappongono diversi «immaginari» esistenziali e che anche i soggetti cristiani «sono immersi nel crogiolo dell’ibridazione culturale» ed esposti «alle sue influenze» [2]. Una realtà fluida dove occorre aderire con realismo alle condizioni date, confidando non nel ricorso a nuove tecniche di propaganda missionaria, ma nelle dinamiche evangeliche più elementari e nell’operare stesso della grazia.
I sacerdoti e gli operatori pastorali tanto apprezzati dall’arcivescovo Bergoglio non si recano nelle periferie urbane a «portare Cristo» con il piglio di chi si china sui derelitti per elargire un prodotto religioso distillato in qualche laboratorio teologico del centro. Nelle esperienze pastorali più care a Bergoglio, accade esattamente l’inverso: si va in periferia perché lì può capitare con più facilità di «incontrare Cristo» già presente e operante tra i suoi prediletti. Solo grazie a tale incontro, seguendo Cristo, la Chiesa può «uscire da se stessa» e liberarsi dalla tentazione dell’autoreferenzialità, secondo l’intuizione formulata anche dai vescovi latinoamericani all’assemblea di Aparecida [3].
Agli occhi di Bergoglio, questo rovesciamento rendeva interessante per tutto il tessuto diocesano l’esperienza ecclesiale e sociale delle comunità fiorite intorno ai sacerdoti operanti nelle Villas Miseria. Per quegli insediamenti spontanei gonfi di immigrati, spintisi sin nelle aree centrali delle metropoli argentine, la soluzione già scritta ai tempi dei regimi militari doveva essere la demolizione e la deportazione degli abitanti. Invece da decenni, proprio in quelle aree martoriate dalla violenza e usate come discariche anche per gli scarti dell’industria della droga, la rete di vita ecclesiale fiorita in maniera gratuita e non pianificata favorisce processi di umanizzazione e di ricomposizione delle dinamiche comunitarie. I Curas Villeros raccontano quelle aree off limits alla gente dei quartieri “normali” non come un’emergenza sociale da risolvere o da bonificare, ma come luoghi dove si possono sperimentare dinamiche di guarigione dall’interno, trovando risorse anche nei tesori di spiritualità popolare altrove dissipati dalla deforestazione della memoria cristiana.
Quando l’arcivescovo Bergoglio valorizzava e sosteneva queste esperienze, lo faceva anche per suggerire a tutti le dinamiche di “conversione pastorale” delle attività ecclesiali che lì vedeva attuarsi in maniera spontanea e creativa. Ma tale predilezione non esprimeva favoritismi discriminanti nei confronti delle altre realtà diocesane. La sua sfiancante attività pastorale aderiva senza eccezioni anche agli inviti e alle sollecitazioni che venivano da movimenti e centri sportivi, istituzioni culturali e parrocchie dei quartieri più opulenti. L’immagine del vescovo Bergoglio tutto preso a riservare le sue cure pastorali in maniera esclusiva alle cabecitas negras delle Villas Miseria è ormai diventata una caricatura sempre più gettonata dai nemici ideologici del pontificato, insieme a quella del papa “descamisado peronista latinoamericano” e all’altra, la più inflazionata, che interpreta ogni mossa di Bergoglio come riflesso meccanico della sua impronta gesuita.
Periferie globali
L’incontro cercato con le aree marginali e i luoghi simbolo delle grandi emergenze collettive determina in maniera evidente le rotte delle visite papali e anche le tappe interne dei singoli viaggi. La prima trasferta fuori Roma di Francesco l’ha portato a Lampedusa, l’ultima al momento lo ha condotto a Lesbo nel primo “viaggio ecumenico” cattolico-ortodosso realizzato in compagnia del patriarca Bartolomeo I e dell’arcivescovo di Atene Hieronymos II. Due viaggi lampo per abbracciare nelle due isole-zattera del Mediterraneo le moltitudini di profughi africani e asiatici coinvolti in quella che Bergoglio ha definito «la catastrofe umanitaria più grande dopo la guerra mondiale».
Nelle Filippine, il successore di Pietro ha voluto raggiungere l’isola di Leyte per abbracciare a Tacloban i sopravvissuti del ciclone Yolanda. Nella sua prima trasferta europea non è volato a Londra o a Parigi, ma in Albania, terra a maggioranza musulmana disseminata dei martiri del comunismo. Nel suo primo viaggio in America latina messo in agenda durante il suo pontificato ha scelto di passare in Ecuador, Bolivia e Paraguay, i paesi «periferici della periferia sudamericana» (Luis Badilla). Mentre nel suo viaggio messicano vola all’estremo sud del Chiapas per chiedere perdono ai popoli indigeni «incompresi ed esclusi» e termina la visita a Ciudad Juárez, altro luogo simbolo dell’emergenza migratoria, dove celebra messa a poche decine di metri dalla frontiera con gli Stati Uniti e benedice le scarpe dei migranti morti nel tentativo di attraversare il confine.
Anche nella sua dimensione globale e geopolitica, la predilezione bergogliana per le aree marginali e le situazioni limite non prende le mosse da posture ideologiche o risentimenti antagonisti verso i centri geografici, economici e politici dove si esercita il potere globale. Sulle ribalte internazionali, coi i gesti e con le parole, papa Francesco ripete soltanto che «dalla periferia le cose si vedono meglio». Un suggerimento messo a disposizione delle élite coinvolte nei processi decisionali che condizionano la vita delle moltitudini.
Nel tutoraggio spirituale offerto da Francesco a chi vive nelle periferie del mondo non c’è nessuna supponenza ribellista. Non si accarezza il delirio utopico di contrapporre le periferie al centro, per “farlo fuori”. Muovendosi nella tradizione della Chiesa, papa Francesco è rispettoso dei poteri costituiti, da Putin a Xi Jinping, da Merkel a Evo Morales. Dialoga dei problemi del mondo con il direttore del Fondo monetario internazionale Christine Lagarde; esalta il Parlamento europeo richiamando lo spirito dei padri fondatori dell’Unione; vola all’Onu, cita Dag Hammarskjöld e rende omaggio agli uomini e alle donne che nel bistrattato palazzo di vetro «hanno servito con lealtà e sacrificio l’intera umanità in questi settant’anni». Nell’incontro con Barack Obama alla Casa Bianca straccia il vestitino da papa anti-Yankee che volevano cucirgli addosso; parla al Congresso da fratello americano, «figlio di questo grande continente»; non recrimina, non condanna, non bastona nessuno. Entra nel cuore dell’America con un discorso in cui esalta tutto ciò che di grande e nobile vibra nella storia del popolo statunitense.
Francesco non invita le leadership a farsi da parte. Rivolge proprio a loro, fuori da ogni snobismo clericale, l’appello a riconoscere che l’attuale condizione del mondo rende più evidente l’unità di tutta la famiglia umana con cui già aveva fatto i conti il Concilio Vaticano II. Ripete ai decisori chiusi nelle loro centrali operative che nell’attuale scenario globale non esistono isole privilegiate in grado di preservarsi con muri e filo spinato dalle sciagure antiche e nuove che tormentano la vita delle moltitudini, dalle migrazioni al terrorismo, dalla povertà ai disastri ambientali. Davanti a questa realtà di fatto, uno sguardo sul mondo a partire dalle periferie può ispirare iniziative e soluzioni condivise più lungimiranti per provare a sciogliere i nodi, per ricalibrare insieme il sistema di gestione del mondo e allontanarlo da spirali autodistruttive (prefigurate anche nell’enciclica Laudato si’).
Tale visuale periferica, sempre attenta alle dinamiche sul campo, ha favorito anche lo sguardo lucido e libero di Francesco e della diplomazia vaticana guidata dal cardinale Pietro Parolin sul conflitto siriano e sulle altre convulsioni mediorientali. Dribblando le propagande ideologiche di ogni risma, il vescovo di Roma e i suoi collaboratori hanno continuato a indicare con insistenza i fattori di potere reale – traffico d’armi, mercato clandestino del petrolio, flussi di denaro – su cui occorreva intervenire, se davvero si voleva togliere ossigeno alle agenzie del terrore.
Il metodo della predilezione
Papa Francesco riceve e va a trovare i grandi del mondo. Ma abbraccia in ogni occasione e con più trasporto i poveri, i malati, i disabili, i derelitti, i carcerati. All’udienza di sabato 9 aprile ha incontrato un gruppo di cinquanta ex prostitute e transessuali uscite dai circuiti del sesso a pagamento. Sostiene le iniziative in difesa dei bambini albini che in alcuni paesi dell’Africa vengono maltrattati e uccisi come fossero creature indemoniate. Fa aprire docce e barbieri a fianco del colonnato del Bernini a vantaggio dei clochard romani, che su impulso dell’elemosineria apostolica vengono anche portati a visitare la Cappella Sistina.
L’attenzione alle periferie del papa non è un prodotto di laboratorio; non c’è bisogno di scomodare le teorie sulla nuova cristianità emergente del global South elaborate da Philip Jenkins. Le «periferie esistenziali» verso cui il vescovo di Roma rivolge con maggior cura la sua opera pastorale rivelano la natura più intima dell’opzione periferica professata da Bergoglio. Nella sua preferenza per chi vive le periferie si concretizza la predilezione per i poveri che segna come tratto genetico l’annuncio cristiano e viene custodita da tutta la tradizione della Chiesa.
Teologi argentini cari a Bergoglio, come Rafael Tello e Lucio Gera, hanno raccontato in mezzo a incomprensioni e vessazioni clericali che la predilezione di Dio per il popolo “periferico” dei poveri è il metodo con cui la salvezza può raggiungere tutti, passando da persona a persona. Ma già Sant’Agostino raccontava che Dio aveva preferito un povero pescatore, che non contava nulla, per far arrivare la sua salvezza anche all’imperatore, al senatore e all’intellettuale, perché fosse più evidente la gratuità del suo dono[4]. Più di una volta, in Piazza san Pietro, Francesco ha fatto in modo che a distribuire ai pellegrini vangeli tascabili e libri di preghiera (quelli che lui raccomanda di leggere anche mentre si viaggia in metropolitana) fossero i senzatetto e altri poveri che vivono intorno al Vaticano.
L’opzione preferenziale per i poveri si offre come criterio oggettivo con cui guardare e discernere i fatti della storia, i processi economici, le dialettiche dei poteri. L’attenzione alle periferie, ai rifugiati, ai migranti, ai senza lavoro, tacciata di buonismo nelle campagne anti-Bergoglio, suggerisce che proprio adottando una prospettiva decentrata si possono indovinare, favorire e accompagnare cammini di guarigione dai mali e dai e problemi che affannano l’intera famiglia umana nel tempo presente, minacciando il futuro di tutti.
[1] Intervista concessa a Càrcova News, rivista pubblicata nella Villa Miseria la Càrcova, 10 marzo 2015.
[2] J.M. Bergoglio, Dio nella città, Milano 2013, pp 25-26.
[3] «La fede ci insegna che Dio vive nella città, in mezzo alle sue gioie, ai suoi desideri e alle sue speranze, come anche nei suoi dolori e nelle sue sofferenze». Documento di Aparecida, paragrafo 514.
[4] Agostino, Sermo 43, 6.