«Visita al primo Paese cristiano»: questo il motto scelto dalla Santa Sede per l’imminente viaggio del Papa in Armenia. Ma a giugno Francesco non incontrerà solo la prima nazione al mondo ad abbracciare il cristianesimo, all’inizio del IV secolo. Troverà anche un Paese impegnato da più di vent’anni in una guerra infinita, quella per la regione del Nagorno-Karabakh, ufficialmente parte dell’Azerbaigian ma da tempo in mano agli armeni. Un conflitto che si trascina dai primi anni novanta senza che si riesca a trovare un accordo di pace. 30mila morti, oltre un milione di profughi e sfollati: questo il tragico bilancio di questa guerra dimenticata.
E proprio in questa regione contesa, a pochi chilometri dalla prima linea del conflitto, abbiamo intervistato il vescovo armeno Vrtanes Abrahamian, vicario generale dell’Ordinariato militare per la Chiesa apostolica, in visita per officiare nella chiesa di Santa Maria. L’intervista ha luogo dopo una funzione religiosa a Talish, un paese di frontiera dove ad aprile sono morte decine di persone, in uno degli episodi più drammatici avvenuto da molti anni a questa parte. Oggi Talish è villaggio fantasma, tutti i civili sono stati evacuati dopo le recenti violenze, e alla funzione prendono parte solo volontari e soldati.
Qual è la ragione della sua presenza oggi a Talish, in questo villaggio che ad aprile è stato segnato dalla violenza e dove sono morti diversi civili?
«La nostra Chiesa nel corso dei secoli è sempre stata a fianco della nazione armena e del suo esercito. Essendo vicario generale dell’ordinariato militare per la Chiesa apostolica, è mio compito essere vicino ai soldati. Ma sono anche qui per ricordare all’esercito e alla nostra gente che la nostra religione e la Chiesa sono per la pace, e noi siamo qui per promuoverla e per predicarla. In questa chiesa dove ci troviamo, dedicata a Maria, madre di Dio, la nostra presenza assume diversi significati. In primis, volevamo fare sentire ai nostri uomini che siamo con loro, in questo momento difficile. Quindi ritenevamo importante officiare una liturgia per coloro che sono morti di recente proprio in questo luogo. Siamo qui anche per pregare Dio affinché riporti la pace in questo villaggio, di modo che i civili possano ritornare presto alle loro case, alla loro terra e in questa chiesa costruita dai loro padri nel XVIII secolo. Questo è inoltre un luogo simbolico perché ci troviamo alla frontiera estrema della cristianità. Qui finisce il mondo cristiano e inizia la terra dell’islam».
In questo luogo un esercito cristiano, quello armeno, e un altro musulmano, quello dell’Azerbaigian, si confrontano da più di due decenni. Qual è la Sua opinione: la religione ha un importante ruolo in questo conflitto? Siamo di fronte a uno scontro di civiltà?
«Credo che il mondo si stia muovendo in un’altra direzione, rispetto a quella da lei menzionata, e che si tenda oggi verso la comunione, il dialogo e la pace fra le religioni. Io stesso ho preso parte a diversi meeting ecumenici nel mondo, dove non solo cristiani di diverse fedi, ma anche ebrei e musulmani si incontrano e pregano insieme per la pace. Credo pertanto che il futuro del mondo e della religione tenda sempre più a unire gli uomini, anziché a dividerli. Quanto a questo conflitto, posso affermare senza dubbio che non si tratta di una guerra di religione. Da parte nostra, cerchiamo in ogni modo di evitare che questa componente vi rientri, ora o in futuro. Certo, non posso garantire che lo stesso valga per l’altra parte, l’Azerbaigian».
Qual è la sua speranza per il futuro di Talish e di questo conflitto? Vedremo un giorno la pace in Nagorno-Karabakh?
«Purtroppo questo non è semplice. Prego per la pace e affinché i civili possano tornare un giorno in questo villaggio. Questo è quello che posso fare. Ma conserviamo la intatta speranza che si arrivi presto alla pace».
Volevo chiederle infine della visita del Papa, che sarà a giugno in Armenia. Crede che il suo arrivo possa dare un contributo alla pace nella regione?
«Certo, la visita del Papa ha per noi un enorme significato, anche da un punto di vista geopolitico. Riconosciamo in lui una grande figura di fede del nostro tempo, e noi armeni – che abbiamo tanto a cuore la religione – ci sentiamo vicini a lui. Siamo certi che la sua visita darà un grande contributo alla pace, non solo per l’Armenia, ma anche per l’intera regione. L’intera biografia del Pontefice racconta di un uomo che ha una grande fede nel bene e nell’umanità, e questo è vero sia prima che dopo che è divenuto Papa. Il riconoscimento del genocidio armeno lo scorso aprile ne è stato un’ennesima riprova, e una conferma del suo impegno per rendere migliore il nostro mondo».