L’attaccamento alla patria è stato un elemento fondamentale nella lotta dei popoli dell’Est europeo per liberarsi dal comunismo. Tanto che Giovanni Paolo II parlò di una «teologia delle nazioni». Ma ora il concetto di nazione esprime chiusura, rifiuto e conservazione. È chiaro il giudizio di Luigi Geninazzi, uno dei giornalisti che meglio conosce l’Europa dell’Est e in particolare la Polonia, nel breve saggio pubblicato sull’ultimo numero di «Vita e Pensiero». Alcuni giorni fa anche Vatican Insider era intervenuto sull’argomento, proponendo un’ampia serie di citazioni di Giovanni Paolo II dedicate all’accoglienza degli immigrati e dei rifugiati, un’eredità che oggi sembra sempre più dimenticata anche nel suo Paese. L’articolo ha provocato notevoli polemiche in Polonia. Ora sulla stessa lunghezza d’onda interviene la rivista bimestrale dell’Università Cattolica.
I nuovi muri
Geninazzi osserva quanto sia cambiato rispetto a una decina di anni fa. Il “gruppo di Visegrád”, creato da Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia per sostenere il processo d’integrazione europea, «è diventato il fronte del rifiuto e della chiusura. Gli eredi di Solidarność, i figli della “rivoluzione di velluto”, la generazione cresciuta dopo la caduta del Muro, si negano ad accogliere i profughi, usano metodi duri per respingerli, blindano le frontiere e costruiscono nuovi muri». Non che nel resto d’Europa l’onda lunga e dirompente dell’immigrazione di massa non crei problemi. Ma se nei Paesi occidentali infuriano le polemiche, «nei Paesi dell’Est – osserva l’autore del saggio – assistiamo a una pressoché totale identificazione di vedute tra la società e il potere: sia per gli uomini al governo sia per l’uomo della strada è in gioco la sopravvivenza della nazione». E non è questione di schieramenti politici, dato che il nazionalismo accomuna esponenti della destra ultraconservatrice, come il premier ungherese Viktor Orbán e il leader del più influente partito polacco Jarosław Kaczyński, e gente notoriamente di sinistra, come il primo ministro slovacco, il socialista Robert Fico, e il presidente della Repubblica Ceca, il socialdemocratico Miloš Zeman.
Come la pensava Papa Wojtyla
L’attaccamento alla patria è stato un elemento fondamentale nella lotta contro i regimi comunisti imposti dall’Unione Sovietica nell’Europa dell’Est. «Ancor più, – osserva Geninazzi – possiamo parlare di una vera e propria “teologia delle nazioni” che è stata sviluppata da san Giovanni Paolo II ed è stata usata come grimaldello per scardinare l’apparato ideologico-repressivo dello Stato totalitario. Per il Papa polacco “una nazione vive della verità su di sé e ha diritto a questa verità su di sé”. Di conseguenza “lo Stato deve consentire alla nazione di realizzare la sua soggettività”, un termine che ha ribadito più volte nei suoi viaggi in Polonia». Già nel 1974 Karol Wojtyła aveva scritto che «la patria è un tesoro che va dilatato, è la voce del mio cuore che intende abbracciare tutti». Un sentimento che troverà la sua più alta formulazione nel discorso da lui pronunciato alle Nazioni Unite nel 1995, con l’appello «Ama gli altri popoli come il tuo!».
Ripiegamento identitario
Oggi l’impegno di statisti saggi come il cancelliere tedesco Helmut Kohl, il premier polacco Tadeusz Mazowiecki, il presidente cecoslovacco Václav Havel, il leader ungherese József Antall, che dopo la caduta del Muro riuscirono a evitare guerre civili e scontri, è stato sostituito «da un ripiegamento identitario. Il concetto di nazione non esprime più una forza rivoluzionaria ma una volontà di conservazione, non si erge contro l’oppressione e l’umiliazione ma afferma orgogliosamente la propria superiorità, non pretende di cambiare il mondo bensì mira a difendere la propria specificità etnico-culturale dalla minaccia dell’ibridazione globale». I nuovi governi si preoccupano molto per le proprie minoranze in casa altrui ma senza prestare un’uguale attenzione alle minoranze etniche di casa propria, come quella socialmente svantaggiata ed emarginata dei rom, oggetto in molti casi d’intolleranza xenofoba.
Un nuovo «approccio nazionalistico»
«L’omogeneità etnica (dentro e fuori i confini) – osserva Geninazzi – finisce così per prevalere sull’uguaglianza giuridica di tutti i cittadini. Sta qui l’ambiguità pericolosa del “nuovo approccio nazionalistico”: i principi della democrazia liberale passano in secondo piano, quel che conta è “l’energia magica della nazione”, esaltata nella sua differenza ontologica e vissuta con un senso di superiorità. È una posizione che si fa forte dei richiami alla storia, ma si tratta di una memoria selettiva. L’omogeneità etnica delle nazioni centro-europee non è un dato naturale, ma il frutto di drammatici sconvolgimenti. La Polonia, ad esempio, è stata terra di migrazioni e scontri ma anche di accoglienza del diverso».
Rimodellare lo Stato
Il nazionalismo intende rimodellare lo Stato, un progetto che in Ungheria si è realizzato con la nuova Costituzione del 2012, nella quale si afferma «il ruolo del cristianesimo nel preservare la nazione» e si ribadisce il diritto alla vita sin dal suo concepimento. «Si tratta di affermazioni importanti – si legge nel saggio di “Vita e Pensiero” – anche se hanno un valore soprattutto ideologico: di fatto l’Ungheria è un Paese poco fervente e molto secolarizzato e gli aborti, la cui pratica resta legale, equivalgono al 50% delle nascite. Ma non è vero, come molti hanno scritto, che l’Unione Europea abbia contestato quei principi costituzionali. La Commissione di Bruxelles ha preso di mira le norme riguardanti la Corte suprema, la Banca centrale e la libertà di stampa, tutte disposizioni molto discutibili e limitative che alla fine il governo di Budapest ha accettato di sopprimere o modificare».
Un modello che fa scuola in Polonia
Il modello ungherese sta facendo scuola in Polonia, «un allievo che intende superare il maestro». I nazional-conservatori di Jarosław Kaczyński, dopo aver trionfato nelle elezioni dello scorso ottobre, «vanno di fretta nella costruzione di uno Stato autoritario e in pochi mesi – scrive Geninazzi – hanno compiuto quello che a Viktor Orbán ha richiesto due legislature. La Corte costituzionale polacca è stata cambiata con una procedura ritenuta incostituzionale dallo stesso tribunale e le emittenti radio-tv pubbliche sono passate sotto il diretto controllo del governo». L’obiettivo di Kaczyński, che ha sempre sognato di «portare Budapest a Varsavia», è la creazione di una Quarta Repubblica polacca che dovrebbe sostituire la Terza, quella nata da Solidarność (dopo la Prima del maresciallo Piłsudski e la Seconda dell’epoca comunista). «Non si tratta solo di cambiare il sistema politico, ma di riscrivere la storia della Polonia degli ultimi trent’anni, presentando la svolta avvenuta nel 1989 non come una transizione pacifica dal comunismo alla democrazia bensì come un complotto ordito dal regime e dai loro agenti dentro Solidarność. La denigrazione di Lech Wałęsa, l’uomo-simbolo della rivoluzione polacca, accusato di aver agito per anni come spia dei servizi segreti comunisti, trasforma gli eroi in traditori della patria, che sarebbe tornata a essere davvero libera con il governo nazionalpopolare nel segno di Kaczyński».
Una «storia deformata»
«Il nuovo nazionalismo costruisce un’identità mitica che rifiuta il confronto con l’altro (l’immigrato, il profugo extraeuropeo, e perfino l’opposizione polacca bollata come antipatriottica) e si appella alla storia», conclude Geninazzi. Tuttavia «esiste una storia deformata che genera uno stato confusionale». Parole pronunciate da Czesław Miłosz nel lontano 1980, quando ottenne il premio Nobel per la letteratura, ma che ben si adattano all’attualità.