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L’arte dell’attesa: maschio futurista vs donna impressionista

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Anetlanda/Shutterstock

don Fabio Bartoli - Il blog di Costanza Miriano - pubblicato il 27/05/16

Beati quelli che sanno aspettare...

Qualche giorno fa un’amica, commentando un viaggio che doveva fare in Terra Santa, mi diceva: “sono contenta che domani sia solo lunedì così mi godo per due giorni l’attesa della partenza”. La frase lì per lì mi ha fatto sorridere, nella sua ingenuità infantile, ma ripensandoci ho scoperto che nasconde una profonda verità.

Sì perché uomini e donne hanno una concezione totalmente diversa del tempo. Deve essere qualcosa che ha a che fare con la maternità e il ciclo, fattostà che le nostre amiche sanno attendere molto meglio di noi. La loro vita, molto più profondamente della nostra, è scandita da ritmi biologici che insegnano loro fin da bambine che per avere dei frutti bisogna aspettare e che d’altra parte per chi sa aspettare il frutto è certo.

Deve essere per questo che amano tanto farsi aspettare (come sa chiunque abbia mai dato un appuntamento ad una donna): per insegnarci la sublime arte dell’attesa.

Diciamoci la verità: noi maschi conquistatori vorremmo divorare il tempo e lo spazio e mal tolleriamo che qualcosa si frapponga tra noi e il nostro obbiettivo, così se fossimo noi a dover partorire faremmo di tutto per accelerare quei nove mesi e conquistare subito l’agognato bambino, trofeo della nostra virilità.

Il maschio è futurista, per lui tra il pensiero e l’azione non deve frapporsi nulla. La donna invece è impressionista, per lei il presente si frammenta in una miriade di puntini colorati ognuno dei quali ha una diversa sfumatura ed un diverso significato e vanno tutti goduti istante per istante, puntino per puntino.

La donna riceve tutto come un dono, ed anche il tempo dell’attesa, con le sue innumerevoli forme (perché l’attesa del Lunedì è assai diversa da quella del Martedì e quella delle nove del mattino non assomiglia affatto a quella delle cinque del pomeriggio) finisce con l’essere dono esso stesso, anzi, nella certezza del dono l’attesa è già in un certo modo una forma di godimento, più dolce, più languida, più interiore di quella che dà il possesso e anticipando il dono lo interiorizza e lo rende più profondo e vero, più vissuto, più intimo.

Non è l’attesa nostalgica del sabato del villaggio (che ho sempre detestato), ma l’attesa gioiosa della parusia, l’attesa nutrita dalla certezza della fede, dalla fiducia riposta nella mano del donatore che per questo, sulla fede, sulla fiducia, è già godimento.

Imparare ad aspettare significa sottomettere la propria volontà di conquista alla logica del dono, significa riconoscere che la nostra posizione di fronte alla vita non è quella dei dominatori, ma quella dei mendicanti, in attesa di ricevere tutto dalla mano del Padre.

È questo in fondo un altro modo di leggere la beatitudine evangelica “Beati i poveri nello spirito”: beati quelli che sanno aspettare, perché solo chi è davvero povero si riceve costantemente in dono e dunque sa aspettare e solo chi sa aspettare riceverà il dono e non cercherà di rubarlo.

Perciò care amiche insegnateci voi l’arte di attendere, di pregustare il dono e nel frattempo però abbiate pietà della nostra vorace impazienza e non mettetela troppo alla prova.

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