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Basta soffrire in silenzio

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Jeffrey Bruno

Rosemary Battle - pubblicato il 27/05/16

Ho deciso di essere onesta su quello che provavo nel discernimento della mia vocazione

In un ritiro del novembre scorso, in una piccola sessione di gruppo, la guida ha chiesto che condividessimo com’è il nostro rapporto con Dio. Quando è arrivato il mio turno di parlare, per la prima volta in quel semestre ho deciso di essere onesta su ciò che provavo: “Penso di avere il problema opposto alla maggior parte di voi. Non sento Dio distante. Mi sembra che non mi lasci mai sola”.

Sono arrivata al college per studiare Scienze dell’Educazione e nutro davvero una passione per questo argomento. Può essere tuttavia impossibile concentrarsi su una passione quando qualcuno bussa incessantemente alla tua porta. E se quel qualcuno poi è Dio…

Può forse sembrare egoista, ma voglio davvero aprire la porta. Penso alla vita religiosa da quando ero in terza elementare, e ormai sono grande abbastanza perché la maggior parte degli ordini mi permetta di andare a visitarli, ma devo essere pratica. Finché Dio non mi mostrerà la strada verso un certo ordine, devo concentrarmi sul qui e ora; devo istruirmi. So che questo non sta mettendo altri obiettivi davanti a Dio; il mio sacerdote, i miei amici, fratelli, direttore spirituale e ogni religiosa con cui ho parlato negli ultimi due anni mi hanno detto la stessa cosa. Devo concentrarmi sugli studi.

Sapere questo, e sapere che è la volontà di Dio su di me, non rende tuttavia la chiamata più tranquilla, né mi fa mettere l’anima in pace. È un paradosso: lo sento bussare alla mia porta, corteggiarmi se volete, e tuttavia allo stesso tempo insistere sul fatto che aspetti prima di dedicargli la mia vita.

Suppongo che sia quello che a volte affrontano anche le coppie – gli aspetti pratici della vita che sembrano fastidiosi quando la promessa di comunione è ormai all’orizzonte.

A volte provo un anelito così forte nel mio cuore da non riuscire a studiare, oppure la realtà di quanto sia ancora lontana la mia unione totale con Dio mi colpisce all’improvviso e non posso fare a meno di piangere. Trascorro molto tempo arrabbiata con Dio, sentendomi abbandonata e pensando che nessuno comprenda la mia lotta.

Ovviamente parlare del mio problema al ritiro non l’ha risolto, e anzi l’ha anche un po’ peggiorato. Molte delle persone presenti nel gruppo erano stupite. Non avevano idea che stessi affrontando una lotta.

Quelle persone mi hanno anche detto, però, che le ho ispirate ad amare di più Dio, e che vedere la mia prontezza ad aspettare pur nel dolore è stato d’esempio. Persone che avevano problemi del tutto diversi hanno beneficiato della mia lotta.

Se condividere la mia storia ha in qualche modo ispirato altri ad approfondire la loro fede, allora forse potrei fare di più. Tutti noi dovremmo farlo. La mia esperienza di ritiro mi ha insegnato che solo perché Dio ci dà dei pesi da portare a livello individuale non significa che dobbiamo portarli nell’oscurità. A volte è bene che le altre persone vedano le nostre lotte. Una volta ho sentito dire che nella sofferenza siamo più vicini a Cristo; a volte è bello rivelare quanto camminiamo vicini a Dio.

Sono consapevole del fatto che la maggior parte delle persone ha una croce ben più pesante della mia, ma qualunque sia la nostra croce non abbiamo idea dell’impatto che può avere su chi ci circonda. E allora non pensate mai che la vostra croce sia una cosa esclusivamente personale.

[Traduzione dall’inglese a cura di Roberta Sciamplicotti]

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