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Quella idea sbagliata sulla resurrezione come proiezione estrema dell’illusione moralista

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don Fabio Bartoli - La Fontana del Villaggio - pubblicato il 24/05/16

Non temere…

Per più di 350 volte la Bibbia ci ripete l’ammonimento a non temere, segno che la paura è quasi la condizione naturale dell’uomo. Abbiamo paura di tutto: del sole e della pioggia, della malattia e del lavoro, della libertà e della prigionia. Ci agitiamo nell’angoscia di perdere ciò che amiamo: lottiamo, brighiamo, ci arrabattiamo, ma alla fine perderemo sempre, come constata con amarezza il libro del Qoeleth: a che serve essere giusti e saggi se lo stesso destino di morte attende il disonesto e il giusto? Per quanto si paghi il riscatto di una vita non potrà mai bastare per evitarne la fine, siamo prigionieri della morte e dobbiamo pagarle il terribile tributo della paura.

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Ma più di tutto è di Dio che abbiamo paura. Quasi ogni volta che Dio si manifesta a qualcuno si presenta con le parole “Non temere”, appunto perché di fronte alla manifestazione del divino la prima reazione dell’uomo, la più istintiva, è quella di fuggire, di tirarsi indietro spaventati. E questo in effetti pone un problema: Perché? Non sembra essere logico! Come mai, se siamo stati creati per essere in comunione con Dio, quando siamo davanti a Lui ci ritraiamo inorriditi? Come mai, anche ammesso che riusciamo ad entrare cinque minuti in una preghiera più intima e profonda, siamo sempre afflitti da mille distrazioni che vorrebbero distoglierci da quel contatto? Tante volte si dice che una persona dovrebbe seguire le sue naturali inclinazioni, eppure io non trovo in me alcuna inclinazione alla preghiera, almeno non in questa natura umana decaduta. C’è in me la nostalgia della preghiera, ma c’è al tempo stesso una forza che costantemente mi spinge via.

Il punto è che fin dall’inizio abbiamo prestato ascolto alla voce del serpente che ci ha convinti che Dio è nostro nemico, che pone i suoi precetti per legarci ed impedirci un pieno sviluppo della nostra umanità. Nota l’astuzia del serpente: tutti gli alberi sono a nostra disposizione, possiamo mangiare tutto, fare tutto, gustare tutto, il mondo intero è nelle nostre mani tranne una cosa sola. Ed è ben giusto e necessario che una cosa, una sola, sia sottratta al nostro potere perché quel divieto diventa il simbolo che ci ricorda che non siamo Dio, che siamo creature, legati al Creatore da un rapporto di assoluta dipendenza. In Lui ci muoviamo ed esistiamo, come dice S. Paolo. Ma l’arte del tentatore consiste nel farti dimenticare tutto il creato che è a tua disposizione per concentrarti su quell’unica cosa vietata, così che, come dice Sartre, finiamo con il convincerci che se per una sola cosa non siamo liberi allora non siamo liberi per nulla. E l’ironia amara di tutta la vicenda è che quella cosa che ci era vietata, l’essere come Dio, non ci era vietata in eterno, ma solo temporaneamente, finché non l’avessimo potuta ricevere in dono, ma noi abbiamo voluto rubare il dono che il Padre aveva preparato per noi!

A partire da quell’evento è accaduto un vero terremoto spirituale, le cui conseguenze giungono fino a noi addirittura amplificate. Adamo, credendo al serpente, ha rotto il rapporto fiduciale che lo legava a Dio, da cui riceveva tutto. Ha smesso di vederLo come Padre ed ha cominciato a vedere in Lui un padrone, ha smesso cioè di guardarLo con gli occhi del Figlio ed ha cominciato a vederLo come il diavolo stesso lo vede! L’uomo nel peccato non è più capace di guardare a Dio come a un Padre, ma proietta su di Lui l’immagine che ne ha il diavolo. Per il diavolo Dio è un padrone esigente e terribile, a cui non può sottrarsi, ma verso il quale è in una continua ribellione, sempre nel tentativo di guadagnarsi qualcosa per il proprio interesse, per riempire il proprio vuoto, vuoto che però, una volta separato da Dio, è divenuto incolmabile, nel diavolo come nell’uomo. Poiché abbiamo strappato via l’infinito dal nostro cuore, nel nostro petto è rimasta una ferita infinita, un’infinita nostalgia che niente, se non Dio solo, potrebbe saziare. Da quel giorno noi siamo la fame, noi siamo il bisogno.

Una volta che ci siamo separati dal Padre abbiamo scoperto di essere nudi. Poiché abbiamo voltato le spalle a Colui che ci proteggeva e ci custodiva e ci riempiva di ogni bene, abbiamo scoperto di essere indifesi e di dover lottare per ogni cosa. Poiché abbiamo sputato sul dono ora siamo costretti a conquistare tutto. Da qui la consapevolezza della nostra terribile fragilità, che genera in noi la paura. Poiché ora abbiamo paura del Padre, che appunto non vediamo più come Padre, abbiamo paura di ogni cosa e più di tutto abbiamo paura della morte, che non è più la sorella che ci ricongiunge a Dio, la maestra saggia ed esigente che ci insegna a vivere, ma è diventata il mostro terribile, il muro invalicabile contro cui è destinata ad infrangersi ogni speranza ed ogni illusione di bene.

Notiamo che la paura di Dio può assumere due forme, entrambe micidiali per ogni possibile vita spirituale: la via dell’ateismo e quella del moralismo.

La Bibbia non conosce la parola ateo, nessuno può seriamente essere ateo, perché l’uomo non può veramente rompere il legame che lo unisce a Dio (e per fortuna!), siamo destinati a goderne in eterno, come figli, o a subirlo in eterno come schiavi. Questo è talmente vero che nessun credente è tanto determinato da Dio nelle sue scelte e nelle sue decisioni quanto lo è l’ateo che, ossessionato come è dal proprio rifiuto, non riesce a vedere altro nella sua vita e prende tutte le sue decisioni a partire dalla propria ribellione. La condizione dell’ateo quindi è una condizione terribile, perché si condanna da solo a mordere in eterno una catena che non potrà mai spezzare e che anzi si stringe sempre più quanto più egli ci si ribella contro.

Ma non meno terribile è la condizione del moralista! Consapevole di aver perduto il favore di Dio egli vorrebbe riconquistarlo con le sue forze, ma non può, perché l’essenza dell’essere Figlio è l’abbandonarsi al Padre e non si può trattare Dio come un qualunque altro oggetto da conquistare. Dio non può mai essere conquistato: “non coerceri a maximo, contineri tamen a minimo” diceva S. Ignazio. Il moralista cerca di sottomettere la propria natura decaduta con le proprie forze, ma la natura non può sottomettere la natura, egli diventa così simile a colui che cerca di strapparsi dalle sabbie mobili afferrandosi per i propri capelli, come nella favola del Barone di Műnchausen. Non potendo sottomettere la propria natura si condanna a vivere sotto lo sguardo di un gendarme che gli proibisce perfino di respirare. Non sopportando il terribile sguardo del Gendarme Divino (che è il Padre visto con gli occhi del diavolo), egli diventa il gendarme di se stesso e ciò che è peggio è che nell’intimo della sua coscienza non può mai essere soddisfatto, mai felice, perché la nudità che sperimentiamo dopo il peccato ha posto in noi un istinto insopprimibile, che è più forte di qualsiasi cosa: l’istinto di autoconservazione, l’imperativo “salva te stesso!” che è l’ultimo appello della natura umana, così l’individualismo, il pensare prima a sé, cacciato dalla porta rientrerà inevitabilmente dalla finestra, in una forma o nell’altra. Solo la Grazia, cioè l’amore gratuito del Padre, può sottomettere la natura, ma questo è proprio ciò che il moralista non vuole, egli infatti vuole meritare Dio, perché la sola lingua che la sua natura conosce è quella del merito, tanto gli sembra impossibile che si possa essere amati gratis!

Siamo dunque schiavi, ostaggi del peccato, e come dice la lettera agli Ebrei (Eb. 2,15) è attraverso la paura della morte che il diavolo ci tiene in schiavitù. La consapevolezza della morte ci accompagna sempre, è come una presenza oscura che ci cammina accanto, ricordandoci sempre la nostra fragilità e precarietà. Il libro del Qoeleth ha pagine amarissime per descriverla: “Mi sono accorto che il vantaggio della sapienza sulla stoltezza è come il vantaggio della luce sulle tenebre: il saggio ha gli occhi in fronte, ma lo stolto cammina nel buio. Eppure io so che un’unica sorte è riservata a tutti e due. Allora ho pensato: “Anche a me toccherà la sorte dello stolto! Perché allora ho cercato d’essere saggio? Dov’è il vantaggio?”. E ho concluso che anche questo è vanità. Infatti, né del saggio né dello stolto resterà un ricordo duraturo e nei giorni futuri tutto sarà dimenticato. Allo stesso modo muoiono il saggio e lo stolto.” (Qo 2,13-16)

A che serve essere nobili e giusti? A che guadagnare il mondo intero? A che sacrificarsi e lottare? Principi e re, papi e cardinali, ricchi e poveri, santi e peccatori tutti muoiono allo stesso modo e tutti indistintamente saranno mangiati dai vermi. La tragica poesia di Totò “A Livella” lo spiega molto bene: “T’ ‘o vvuo’ mettere ‘ncapo… ‘int’a cervella/ che staje malato ancora e’ fantasia?…/ ‘A morte ‘o ssaje ched’è?… è una livella./‘Nu rre, ‘nu maggistrato, ‘nu grand’ommo,/ trasenno stu canciello ha fatt’o punto/ c’ha perzo tutto, ‘a vita e pure ‘o nomme:/ tu nu t’hè fatto ancora chistu cunto?/ Perciò, stamme a ssenti… nun fa’ ‘o restivo,/ suppuorteme vicino -che te ‘mporta?/ Sti ppagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive:/ nuje simmo serie… appartenimmo à morte!”. Apparteniamo alla morte! Non apparteniamo a noi stessi, siamo schiavi della morte e la morte è terribilmente seria, non ammette pagliacciate, non si può ingannare.


La certezza della morte smentisce definitivamente ogni possibilità di affidarsi a Dio e così vincere il peccato e la paura. Come credere a un Dio Padre buono se poi il destino finale della nostra vita sono i vermi? In faccia al moralista, in faccia all’uomo che cerca la salvezza, il diavolo regolarmente sbatte la certezza della morte distruggendo ogni possibile speranza di vincere il terrore che ci separa da Dio. Se è certamente vero che la natura non può sottomettere la natura, è più che mai vero che nessuno può sfuggire alla morte e qui si dimostra il fallimento di ogni pretesa giustizia umana. La morte, come una barriera invalicabile, come un definitivo e tragico muro di separazione, ci separa per sempre dal Padre.

Nessuno? No, in verità non è così. C’è uno che è stato liberato dalla morte e per questa ragione ha riaperto la via verso il Padre che era sbarrata. C’è uno che si è fidato del Padre tanto da andare a morire per Lui e per questa ragione ci ha salvati tutti, perché il Padre ha dimostrato di essere compiutamente e pienamente Padre anche al di là della morte, resuscitandolo. Sia lodato il nostro Signore!

Bisogna fare attenzione a questo punto, perché nella nostra testa c’è un grosso equivoco, figlio di una comprensione moralista del Cristianesimo, che diventa di fatto una mezza eresia e soprattutto ci impedisce di cogliere nel suo vero senso l’evento della Risurrezione e cosa ha a che fare con noi.

Più o meno a partire dal 1200 si comincia a rappresentare la Risurrezione di Cristo come un eroe che esce vittorioso dalla tomba con uno stendardo in mano. Il paradigma iconografico più famoso di questo modello è forse la Risurrezione dipinta da Piero della Francesca. Questo modello però mette in ombra un elemento decisivo: Cristo non è risorto per virtù propria, ma è stato resuscitato dal Padre! Paolo, in molti passi delle sue lettere, è categorico su questo punto, e così gli Atti degli Apostoli. Perché è così necessario affermare che l’autore della Risurrezione è il Padre? Per due motivi: innanzitutto perché se Gesù fosse stato capace di autoresuscitarsi vorrebbe dire che non era veramente morto, visto che era ancora capace di fare qualcosa, ma soprattutto perché impostando le cose in questo modo si spezza la relazione d’amore tra Lui e il Padre, che è appunto quel legame più forte della morte che fa sì che la morte non possa trattenerlo.

L’idea del Cristo che si autoresuscita è la proiezione estrema dell’illusione moralista, perché rappresenta l’impossibile fantasia che un uomo possa vincere da solo la morte, con le sue proprie forze. E infatti, coerentemente, Piero della Francesca lo raffigura come un guerriero, con la faccia dura di uno che combatte, non con il volto gioioso di chi ha ricevuto un dono, e con uno stendardo in mano che indica la sua vittoria, che però in questo modo, senza nessun riferimento al Padre, è ancora la vittoria di un individuo, sia pure divino, e non di una relazione amorosa.

Proprio questa comprensione sbagliata della Risurrezione ha generato anche una comprensione totalmente sbagliata dell’evento della Croce. Così molti hanno cominciato a chiedersi che razza di padre sia questo Dio che scarica la sua ira sul figlio abbandonandolo alla morte. Il grido di Gesù “Perché mi hai abbandonato?” non è più inteso come la prova della commovente e totale solidarietà di Gesù con i peccatori, ma come un terribile atto di accusa contro il Padre, colpevole di aver esigito uno spaventoso tributo di sangue per soddisfare il suo onore offeso.

Nessuna meraviglia se la gente abbandona in massa il Cristianesimo, quando noi presentiamo in questo modo i misteri centrali della nostra fede!

Proprio resuscitando il Figlio, invece, il Padre ci ha mostrato definitivamente che possiamo fidarci fino in fondo di Lui. È vero: il Padre domanda al Figlio un sacrificio, ma non lo abbandona in questo sacrificio, anzi, gli sta accanto fino in fondo ed oltre. Per questo la morte è stata vinta ed il diavolo ha perso la sua arma migliore e soprattutto noi possiamo davvero e fino in fondo non temere più.

È a partire dalla Risurrezione, e non dalla Creazione, che si scopre il volto pieno del Padre. Se pensiamo che Dio sia Padre solo perché ci ha creati, inevitabilmente la nostra attenzione si sposterà sulla legge, sulla necessità di corrispondere al Suo disegno su di noi, ciò che, come abbiamo visto è impossibile, e quindi fatalmente si scivolerà nel moralismo, nonostante le migliori intenzioni. Ma Dio è Padre non solo perché ci ha creati, perché la vita sarebbe una beffa tragica se dovesse concludersi con la morte, ma soprattutto perché non ci abbandona nella morte, perché ha spalancato per noi la strada perché possiamo tornare a Lui.

…perché hai trovato Grazia

Perché la morte possa essere vinta però è necessaria una condizione: dobbiamo fidarci del Padre fino in fondo, respingere l’inganno del serpente e, come Gesù, accettare di entrare nella morte credendo che essa non ha l’ultima parola. Questo non possiamo farlo da soli, è sempre l’effetto di un dono, una Grazia.

Le parole dell’angelo a Maria “perché hai trovato Grazia presso Dio” mostrano forse meglio di ogni altra questo mistero: non siamo noi a riconciliarci con Dio, ma Lui stesso a riconciliarci con sé. Noi non saremo mai in grado di meritare il suo amore, ma è Lui che misteriosamente ci dà grazia e senza alcuna virtù, senza alcun merito da parte nostra si innamora di noi. Sì, Dio è innamorato di te, questo è il primo e più evidente senso dell’espressione “hai trovato grazia”.

Qui non c’è niente da capire, mille pagine non potrebbero convincerti del fatto che Dio ti ama, è solo un’esperienza che può dirtelo e questo significa lo Spirito Santo, perché è lo Spirito che riversato in noi ci fa sperimentare e sentire nella nostra carne, cioè nella nostra concretezza umana, la certezza dell’amore di Dio, che porta con sé quella speranza che non delude e quindi è più forte della paura.

E Dio non si innamora delle tue virtù, non ti desidera perché sei bello, intelligente o santo, ma proprio al contrario perché sei piccolo e incapace. Così ad esempio nel libro del Deuteronomio è scritto: “Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli -, ma perché il Signore vi ama” (Deut. 7,7-8). S. Bernardo esprime questa verità teologica proprio parlando di Maria, con una formula semplice e bellissima: Maria meritò di essere vergine perché umile; egli parla così del duplice ornamento, dell’anima (umiltà) e del corpo (verginità) che attira su Maria l’amore del Padre.

L’umiltà è proprio l’atteggiamento del figlio, è l’assunzione deliberata e consapevole della precarietà e della nudità che così non sarà più una condanna, ma un titolo di vanto: sarò felice di essere povero e nudo, perché così sarò rivestito di Cristo! È l’atteggiamento che l’Angelo chiede alla Chiesa di Laodicea: “Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla. Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo. Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, e abiti bianchi per vestirti e perché non appaia la tua vergognosa nudità” (Ap. 3,17-18).


Allora potremo davvero cantare, come nel mirabile inno di Pasqua: “Felice colpa, che meritasti un così grande Redentore!” Sì, il nostro merito non consiste nell’essere innocenti, nessuno lo è, ma nell’assumere umilmente la nostra colpa, questa umiltà è ciò che attira su di noi la benevolenza del Padre e attraverso di essa otteniamo il dono dello Spirito Santo e l’infinita gioia di riscoprirci figli. Ti senti povero? Ti senti debole e incapace? Ti senti cattivo? Vedi in te stesso una radice malsana di egoismo che non riesci ad estirpare? Pensi che il tuo cuore sia malato senza speranza? Ma è proprio per questo che il Padre ti ama! È proprio per questo che riversa su di te il Suo Spirito senza misura!

E come sapremo di aver ricevuto lo Spirito Santo? Lo Spirito è lo Spirito del Figlio e dunque compie in noi le opere del Figlio. Sapremo di aver ricevuto lo Spirito Santo quando ci ritroveremo a compiere, quasi senza accorgercene, le opere del Figlio, quelle che la carne non può fare, quelle che per la natura decaduta sono impossibili. I sentimenti sono ingannevoli, il cuore è facile da imbrogliare, ed in questo il diavolo è maestro, ma una cosa non può né sa imitare ed è il sacrificio di sé sulla croce; quello è il segno definitivo della presenza in noi dello Spirito Santo, perché né la carne né il sangue possono arrivare fin qui, la legge del “Salva te stesso!” lo impedisce.

Bisogna però fare attenzione che la croce su cui saliamo sia veramente la croce di Cristo e non una che ci siamo scelti da noi stessi, perché in quel caso ancora non saremmo fuori dal cerchio dell’autoreferenzialità, dalla piaga terribile dell’individualismo. Può accadere infatti che il moralista, appunto perché vuole salvare se stesso, si faccia carico di terribili sacrifici, che non sono però dettati dall’amore, ma appunto ancora da una ricerca di sé e di una presunta perfezione. Quanti uomini e donne hanno distrutto se stessi inutilmente! Quanti digiuni, quante penitenze sprecate, quanti sacrifici gettati al vento in una inutile ricerca di perfezione che in realtà non ci avvicinava di un passo a Dio perché anziché accrescere l’amore alimentava il nostro ego!

Certo, il Padre ci chiede di partecipare con il nostro sacrificio alla sua missione, così da farci partecipare all’amore, perché chi ama si consuma, si distrugge nell’amore. Non c’è amore che non chieda di morire in qualche modo! Ma la differenza sta in questo: se entriamo nella morte per obbedire amorevolmente alla richiesta dell’amore del Padre, il Padre non ci abbandonerà nella morte e noi sperimenteremo, ancora da dentro la morte, la potenza della Sua Risurrezione, così sperimenteremo quel paradosso dell’anima che i Padri chiamano un dolore felice, saremo in croce, spaccati in due ed umiliati, ma nell’animo avremo una luce e una gioia impagabili! Viceversa, se entriamo nella morte per obbedire ad un dovere astratto, ad una legge, per soddisfare un obbligo di coscienza, in definitiva è noi stessi che stiamo cercando ed il Padre allora non può che abbandonarci nella morte, perché soccorrendoci confermerebbe il nostro moralismo, la nostra illusione di poter fare a meno di Lui, mentre attraverso il fallimento della nostra morale possiamo forse rinsavire ed aprire gli occhi ed il cuore all’amore.

L’ultima paura allora, la paura della morte, è definitivamente esorcizzata, perché ora la morte è diventata serva dell’amore e non più del diavolo. Nell’esperienza dello Spirito Santo, cioè nella relazione amorosa con il Padre, la croce non è più una condanna, ma una benedizione, non più patibolo, ma abbraccio del Padre al Figlio attraverso cui si spalanca la pienezza della vita!

E c’è di più, non solo il Padre ci resuscita, ma lo fa innestandoci in Cristo, cioè nel suo Corpo, che è la Chiesa. L’io individualista, autoreferenziale, che cerca sempre se stesso e il proprio interesse cede perciò il passo alla persona ecclesiale, che non vive più per se stessa, ma per il Corpo. In questo modo, a partire dall’amore che ci unisce e ci fa Chiesa, nessuno più muore da solo, nessuno si sacrifica da solo. Dopo Gesù nessuno può più dire di essere stato abbandonato da Dio, appunto perché sperimentando quell’abbandono Dio stesso lo ha visitato ed ora, se ti senti abbandonato puoi sempre dire a te stesso: “ma io sono come Gesù, dunque non sono solo!”.

Nessuno va in croce da solo e dunque tutti veniamo resuscitati insieme, come la Sposa, non più nuda, ma vestita di una veste splendida, tessuta di oro e bisso, cioè delle opere dell’amore. Finché è individuo l’uomo è nudo, ma divenuto Corpo di Cristo è rivestito di Cristo stesso, della luce dell’amore, diventa così la donna vestita di sole dell’Apocalisse.

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