Ancora una volta, durante la messa celebrata a Santa Marta giovedì 19 maggio, Francesco è tornato a parlare del lavoro-schiavo; in particolare ha messo in luce la condizione di quanti, soprattutto fra i giovani, sono costretti ad accettare salari e orari ingiusti e subiscono forme si sfruttamento estreme pur di uscire dalla disoccupazione. Il Papa ha citato l’apostolo Giacomo quando afferma: «Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre e che voi non avete pagato, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore onnipotente». Non è la prima volta del resto che questo passaggio viene richiamato dal pontefice, lo ritroviamo pure nell’esortazione Evangelii Gaudium, al punto 187, laddove si insiste sulla necessità per la Chiesa di ascoltare «il grido» dei poveri, la richiesta di giustizia e, allo stesso tempo, come pure ha ripetuto nell’omelia di Santa Marta, si afferma l’idea di una ricchezza che non deve essere smodata, assoluta, ingorda fino a far diventare il ricco uno sfruttatore del lavoro altrui, «una sanguisuga» come ha detto lo stesso Pontefice.
Francesco è un papa particolarmente sensibile ai temi del lavoro, a un rapporto equilibrato e collaborativo fra imprenditori e dipendenti, difende il ruolo delle rappresentanze sindacali, il giusto salario, i diritti fondamentali. In questo, peraltro, è in linea con l’insieme della dottrina sociale della Chiesa così come si è formata dall’inizio del ’900 a oggi e in modo più specifico con il magistero degli ultimi pontefici, da Paolo VI in avanti.
Tuttavia non c’è dubbio che Bergoglio si senta vicino per formazione, esperienza di vita, impegno pastorale, a quella parte della società che attraverso il lavoro si emancipa dalla miseria estrema, dalle varie schiavitù appunto – che oggi diventano pure la droga, la tratta dei migranti, la prostituzione o la solitudine e l’abbandono; più di una volta, rivolgendo il proprio pensiero ai giovani, ha sollevato il tema della precarietà. D’altro canto, ha sostenuto Bergoglio, dalla certezza di un lavoro stabile e di uno stipendio, dipende il futuro della società, la possibilità per i giovani di mettere su famiglia, di avere e crescere dei figli; per questo Francesco è contrario a un’economia che da reale diventi solo finanziaria, speculativa, capace di distruggere un’impresa o di affossare una nazione giocando in borsa, strangolando i soggetti più deboli, portando all’indebitamento e al pagamento senza fine di interessi giganteschi.
Il tema precariato, è così tornato più volte nei suoi interventi, ne ricordiamo alcuni. Il 17 aprile scorso, per esempio, in occasione dell’Angelus, affermò: «Sono vicino alle tante famiglie preoccupate per il problema del lavoro. Penso in particolare alla situazione precaria dei lavoratori italiani dei Call Center: auspico che su tutto prevalga sempre la dignità della persona umana e non gli interessi particolari». Importanti anche le parole rivolte agli imprenditori della Confindustria venuti ad ascoltarlo nell’Aula Paolo VI lo scorso 27 febbraio; nell’occasione rilevò la necessità di lavorare insieme anche nell’impresa facendo in tal modo rete, non affidandosi al genio solitario di un unico individuo e mettendo al centro dell’azione economica la persona. In quel frangente fra l’altro affermò: «E che dire poi di tutti quei potenziali lavoratori, specialmente dei giovani, che, prigionieri della precarietà o di lunghi periodi di disoccupazione, non vengono interpellati da una richiesta di lavoro che dia loro, oltre a un onesto salario, anche quella dignità di cui a volte si sentono privati?». Le giovani generazioni, osservò il Pontefice, hanno bisogno di speranza.
Importante, in tal senso, fu anche la visita a Torino del giugno del 2015; Francesco, recatosi nel capoluogo piemontese in occasione dell’Ostensione della Sindone, incontrò anche il mondo del lavoro. «Anzitutto – disse il Papa rivolgendosi a imprenditori e lavoratori – esprimo la mia vicinanza ai giovani disoccupati, alle persone in cassa-integrazione o precarie; ma anche agli imprenditori, agli artigiani e a tutti i lavoratori dei vari settori, soprattutto a quelli che fanno più fatica ad andare avanti». «Il lavoro – aggiunse – non è necessario solo per l’economia, ma per la persona umana, per la sua dignità, per la sua cittadinanza e anche per l’inclusione sociale».
L’elaborazione sui diritti dei lavoratori naturalmente non è nuova nel magistero della Chiesa, tuttavia precariato di massa e disoccupazione stagnante insieme al delinearsi di un futuro incerto e spesso cupo per le nuove generazioni, sono elementi che riportano indietro le lancette dell’orologio, a prima cioè delle conquiste realizzate dal movimento dei lavoratori con le quali sia la Chiesa che il cattolicesimo si erano ampiamente misurati. Per questo è utile forse tornare all’elaborazione contenuta già nella Rerum novarum, la celebre enciclica sociale di Leone XIII del 1891 nella quale si definivano i termini entro i quali doveva essere stabilito un giusto patto fra proprietario e operaio. In quest’ambito, scriveva Leone XIII, bisogna sempre tener conto «di un elemento di giustizia naturale, anteriore e superiore alla libera volontà dei contraenti, ed è che il quantitativo della mercede non deve essere inferiore al sostentamento dell’operaio, frugale si intende, e di retti costumi. Se costui, costretto dalla necessità o per timore di peggio, accetta patti più duri i quali, perché imposti dal proprietario o dall’imprenditore, volenti o nolenti debbono essere accettati, è chiaro che subisce una violenza, contro la quale la giustizia protesta». Accanto al salario, fra gli elementi che dovevano essere valutati secondo giustizia, c’era anche l’orario di lavoro.
Il percorso si compiva con la Pacem in Terris di Giovanni XXIII che rappresenta in un certo senso il punto d’arrivo e di ripartenza per certi aspetti della dottrina sociale. Da Paolo VI in poi, infatti, tutta la materia sarà ulteriormente approfondita e messa alla prova dei vari mutamenti storici ed economici fino ai nostri anni dominati dalla globalizzazione. Roncalli, fra i principali segni dei tempi cui bisognava prestare attenzione, inseriva al primo posto proprio «l’ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici. Nelle prime fasi del loro movimento di ascesa i lavoratori concentravano la loro azione nel rivendicare diritti a contenuto soprattutto economico-sociale; la estendevano quindi ai diritti di natura politica; e infine al diritto di partecipare in forme e gradi adeguati ai beni della cultura. Ed oggi, in tutte le comunità nazionali, nei lavoratori è vividamente operante l’esigenza di essere considerati e trattati non mai come esseri privi di intelligenza e di libertà, in balia dell’altrui arbitrio, ma sempre come soggetti o persone in tutti i settori della convivenza, e cioè nei settori economico-sociali, in quelli della cultura e in quelli della vita pubblica».