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Le tre famiglie siriane: “Francesco ci ha ridato la vita”

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Vatican Insider - pubblicato il 18/05/16
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Entrano nell’ostello di Sant’Egidio quando è ormai notte. Li attendono i loro connazionali che hanno preparato una cena tradizionale e addobbato i muri con disegni di bambini. Per le tre famiglie portate a Roma da Francesco è pronto un tetto dopo mesi nel campo profughi di Lesbo. Sono i 12 rifugiati, sei adulti e sei bambini, scelti tra quelli con i documenti in regola e arrivati nell’isola greca prima che entrasse in vigore l’accordo tra l’Ue e la Turchia. Ringraziano «il Papa per l’opportunità che ci è stata data con un gesto emozionante e di speranza».  

Raccontano di aver pagato dai 3 ai 5mila euro per un viaggio in gommone che poteva tramutarsi un una tragedia e, in gran parte, sperano di poter raggiungere la Germania e il Nord Europa. Non sanno quanto resteranno nelle strutture della Comunità di Sant’Egidio. «Siamo ospiti di Francesco: ci ha salvati e ci ha ridato la vita». Il Papa che si porta via tre famiglie di rifugiati siriani dalla «palude» del campo profughi di Lesbo, dove molti vivono nel terrore di essere condotti in Turchia contro la loro volontà, è un gesto dirompente ed emblematico. «Tre governi, quello italiano, quello greco e il Vaticano, hanno esaminato le carte ed era tutto in regola»: il Pontefice ci tiene a mettere in chiaro che portare con sé i profughi non presta il fianco a polemiche. È misericordia.  

Le testimonianze  

“In fuga dalle macerie abbiamo visto la morte”  

HasanHasan tiene in braccio il figlio di due anni. La moglie Nour guarda attonita Santa Maria in Trastevere illuminata dalle luci degli artisti di strada. «Poche ore fa eravamo in un campo profughi, adesso siamo tornati alla vita», si commuove Hasan. Negli occhi ha il terrore dei bombardamenti e la sofferenza per aver dovuto lasciare Damasco, la casa, gli affetti. I ricordi riaprono ferite. «Abbiamo visto morire parenti e amici sotto le macerie, siamo scappati perché in Siria non vedevamo più speranza – spiega -. Rischiare di morire ogni istante rende insicura e fragile l’esistenza, distrugge i sogni, rende impossibile immaginare un futuro. Siamo fuggiti in Turchia. Lo abbiamo fatto soprattutto per il nostro bambino». Il più sembrava fatto, invece, è proprio lì che l’odissea fu a un passo dal divenire tragedia. «Il gommone che abbiamo preso per arrivare a Lesbo era sovraccarico di persone in fuga come noi dalla guerra e il pericolo di affondare non andrà più via», afferma. Il buio, il mare sconvolto dalle onde. «Arrivati a Lesbo abbiamo capito di essere bloccati in un posto da cui non potevamo uscire, una trappola, una prigione». Fino al volo con il Papa. «La nostra salvezza». 

“Dopo le bombe mio figlio ha smesso di parlare”  

Wafa è una mamma angosciata. Lo si capisce da come mette al centro di ogni discorso il figlio di sei anni. Da uno dei «continui bombardamenti» avvenuti negli ultimi mesi a Zamalka, zona periferica della capitale siriana, non è uscita distrutta soltanto la sua casa. Sotto quelle macerie è rimasto il sorriso del bambino che ora tiene stretto per mano. «Da allora parla pochissimo, per molto tempo dalla sua bocca non è uscita neppure una parola: si chiude spesso in un silenzio impenetrabile – spiega Wafa -. Ancora adesso si sveglia tutte le notti piangendo e non riusciamo a convincerlo a giocare con la sorella di otto anni e con gli altri bambini». Wasa e suo marito Osama vivono per i loro figli e per sottrarli alla guerra hanno abbandonato tutto. E lo rifarebbero ancora. «Una casa distrutta la si può ricostruire, ma in Siria non vedevamo più i margini per una vita normale – racconta – . Abbiamo dovuto tagliare i ponti con il nostro passato, però sappiamo di aver scelto la strada giusta». Lesbo è stata una zona grigia. «Le giornate non passavano mai, quando ci hanno detto che potevamo andarcene, non ci credevamo», dice Wafa. «È stato Francesco a ridarci la vita». 

“Scappare dalla mia terra è stato un dolore immenso”  

Ramy ha il sorriso triste di chi deve farsi forza, ma sa che nulla sarà più come prima. A 51 anni ha dovuto ricominciare da zero. Sua moglie Suhila e i 3 figli non si staccano da lui. «Ho insegnato tutta la vita a Deir Azzor poi lì è arrivato l’Isis e ha distrutto la nostra casa e azzerato tutto. Ai miei alunni ho sempre trasmesso i valori della pacifica convivenza e della reciproca comprensione. Dover adesso scappare dalla mia terra è un dolore immenso che non sparirà mai». Si domanda con angoscia che fine abbiano fatto i suoi studenti. «La guerra ha fatto crollare ponti, palazzi, scuole ma soprattutto la possibilità di sfruttare le intelligenze migliori delle nuove generazioni», si rattrista Ramy. E confessa che per lui il futuro è nebuloso. «Ne discutiamo in famiglia e non sappiamo come immaginarci tra qualche tempo – racconta -. Non sappiamo se la nostra vita dovrà ripartire dall’Europa oppure se un giorno potremo tornare in una Siria senza guerra e violenza». Per chi ha dedicato ogni sua energia ai giovani, «la sofferenza maggiore è non sentire i ragazzi proiettare in avanti le loro aspirazioni. Siamo qui grazie al Papa, sapremo meritare l’opportunità e il suo dono ».  

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