Quando gli amici di “Presbyteri” mi hanno chiesto di scrivere questo articolo hanno insistito sul fatto che volevano un taglio esperienziale e pastorale. Sulle prime la cosa mi ha un po’ preoccupato perché la mia esperienza di per sé è grande quanto il mio cappello, nel senso che non ho titoli particolari per parlare di come i preti vivono la liturgia delle ore: non sono teologo, né mi occupo di formazione, né ho mai scritto alcunché di specifico sull’argomento, quindi mi sono francamente chiesto cosa mai avessi da condividere. Poi ho pensato che ciò che rende grande un’esperienza non è la sua base, ma la sua altezza, ovvero non il fatto che faccia riferimento alla vita di tante persone, ma il fatto che sia radicata nell’unica che conta, quella di Cristo. Ciò che dovevo fare allora non era tanto allargare la mia base di esperienza, ma aumentare la sua altezza, o se preferite la sua profondità, in altre parole meditare su di me e sul mio modo di vivere la Liturgia delle Ore e su cosa questo c’entri con la Vita in Cristo. Ho pensato quindi di strutturare questo articolo quasi come un esame di coscienza sulla mia fedeltà, nella presunzione che i problemi e le grazie che vivo nella pratica delle Ore non sono poi tanto diversi da quelli della maggioranza dei sacerdoti.
La prima domanda che mi sono posto dunque è stata: “perché prego con la liturgia delle ore?”. Molte risposte sono possibili a questa domanda: perché i salmi sono Parola di Dio in parola umana, perché Dio stesso mi mette sulle labbra le parole con cui pregarlo, per la bellezza intrinseca della poesia, cosa non secondaria per un appassionato di letteratura come me, e così via. Nessuna di queste però mi sembrava conclusiva e più ci pensavo più mi rendevo conto che ad ogni affermazione era possibile contrapporre una negazione che la svalutasse. L’unica risposta che mi è venuta in mente che mi desse davvero soddisfazione era anche la più semplice: prego la Liturgia delle Ore perché me lo chiede la Chiesa.
Superficialmente può sembrare una risposta legalista, farisaica. In realtà è la più vera se nasce da un profondo amore. Prego con la Liturgia delle Ore perché questa preghiera dice la mia appartenenza al corpo ecclesiale, perché nel recitarla percepisco me stesso come parte di un coro immenso che inizia nei cieli, dagli angeli e dai santi, e coinvolge ogni monaco e prete e suora in ogni angolo del mondo. Questo è talmente vero che i momenti in cui sono tentato di tralasciare la Liturgia delle Ore sono gli stessi in cui mi lascio prendere dal mio individualismo, sia che si esprima in maniera più esplicita nel mio peccato, che porta sempre con sé una sorta di torpore spirituale, sia che si esprima in un’agenda sovraffollata, ma tutta centrata sulle mille cose buone che devo fare io, sul vangelo che devo annunciare io, sui poveri che devo aiutare io, sul mondo che devo salvare io… in una parola sola, centrata in definitiva su me stesso.
Mi sembra che mentre l’Eucaristia dice immediatamente la mia appartenenza a Cristo, e quindi, giustamente, è molto raro che tralasci di celebrarla, la Liturgia delle Ore dice la mia appartenenza alla Chiesa e quindi, purtroppo, basta un’inezia per darmi la scusa di organizzare diversamente il mio tempo. Non è una bella constatazione, ma è così.
Non per nulla nella tradizione monastica uno dei sinonimi indicati per indicare la Liturgia delle Ore è “coro”. Credo che sia essenziale per noi recuperare la dimensione corale di questa preghiera, anche quando questo coro non è immediatamente visibile. Per questo non posso sostituirla con nessun’altra preghiera, non importa quanto profonda e sentita. Due ore di adorazione eucaristica, anche se pregate con tutto il cuore e con tutta l’anima, non esprimono l’appartenenza alla Chiesa quanto un’Ora Media recitata distrattamente in tram.
A proposito di questo, Chesterton diceva che se vale la pena di fare una cosa, vale la pena di farla male, il che applicato al nostro tema significa che se l’alternativa al recitare il Breviario in modo frettoloso e distratto è non recitarlo per nulla, allora piuttosto che non farlo è meglio farlo male. Lo dico per sconfiggere da subito quella tentazione che mi fa dire che se non riesco a trovare il tempo di pregare “bene” allora è inutile farlo. E cosa mai vorrà dire pregare bene? Chi dovrebbe essere il giudice della mia preghiera? Certo non io stesso! Non c’è dubbio che sarebbe meglio dedicare al Breviario tutta l’attenzione, ma anche l’umiltà di accettare serenamente la propria condizione, senza voler possedere la propria preghiera, ma vivendola invece come servizio, è un valore da non trascurare.
Vale la pena, a questo proposito, di dire anche due parole sulla cura del Breviario, inteso come oggetto materiale, non credo che sia necessario un accurato studio psicologico per capire che il rapporto che abbiamo con il libro dice molto sul modo con cui preghiamo. Il Breviario è uno degli oggetti più personali di un prete, o almeno il mio lo è: conservo in esso mille piccoli ricordi di momenti significativi della mia vita, generalmente segnati da esperienze di preghiera, e, siccome quando prego da solo uso prendere appunti per aiutarmi nella meditazione, è tutto pieno di sottolineature, scarabocchi e rapide annotazioni spirituali, nel complesso, pur essendo un oggetto molto “vissuto” ho per esso un affetto particolare, come si ama un vecchio paio di scarpe comode, da cui non ci si separerebbe mai. Evidentemente, essendo un uomo del mio tempo, uso anche qualcuna delle diverse apps a disposizione sul mercato che permettono di recitare la Liturgia delle Ore usando il telefonino o l’I-Pad. Le uso, perché sono di una comodità impagabile, in viaggio ad esempio, o quando si è fuori Parrocchia, ma non le amo: non ci si può affezionare ad una applicazione elettronica! E poi credo che non sia senza valore che l’oggetto che uso per la preghiera serva esclusivamente a quello; mi sembra che usare per pregare lo stesso oggetto che uso per lavorare, comunicare o giocare impedisca, o comunque non favorisca quello stacco, quella “composizione di luogo” che è necessaria per pregare profondamente.
Sempre per favorire la composizione di luogo è importante anche il luogo dove si prega: un conto è pregare in ufficio, dove devo per definizione essere a disposizione di tutti, un conto è farlo in chiesa davanti al tabernacolo, un conto è farlo nell’intimità della propria stanza. E se non mi faccio troppi scrupoli di recitare l’Ora Media nei luoghi più bizzarri, in coda dal dentista per esempio, per quanto riguarda le Ore Maggiori cerco sempre di farlo in chiesa. In parte questo mi sembra anche corrispondere alla natura delle ore stesse: l’Ora Media infatti è concepita come una pausa nella fatica quotidiana, un brevissimo reminder che ci riporta all’essenziale, mentre Lodi e Vespri mi sembra che debbano avere una funzione più alta, di apertura e chiusura della giornata. Anche la pausa di meditazione costituita dall’Ufficio delle Letture preferisco farla in chiesa, davanti al tabernacolo, mentre il momento più intimo della Compieta di solito lo riservo al letto, immediatamente prima di dormire. Mi piacerebbe riuscire a recitarla nell’ultima visita al Santissimo, prima di coricarmi, ma confesso che generalmente vince su di me la stanchezza. Comunque è evidente che la scelta di un luogo o un altro non è indifferente, ed anzi condiziona in maniera importante la preghiera.
Se guardo sinceramente in me stesso, però, mi accorgo che nonostante tutti gli accorgimenti pratici, faccio fatica ad essere fedele al Breviario. Credo che, come dicevo prima, la radice del problema stia nella fatica di sentirsi realmente, esistenzialmente, parte della Chiesa. Se guardo ai preti della mia generazione ho la sensazione che non siamo stati formati ad una profonda sensibilità ecclesiale: i valori della comunione ci sono abbastanza estranei e, se siamo stati fortunati, li abbiamo recuperati dopo, durante il ministero parrocchiale, raramente però rappresentano per noi un valore intrinseco del ministero. Eppure la comunione non è un accessorio, ma una conditio sine qua non del sacerdozio, anche di quello secolare!
Siamo figli in questo di una generazione profondamente individualista.
Mi sembra che oggi nei seminari ci sia il tentativo di educare le nuove generazioni diversamente, però temo che se non cambia il paradigma esistenziale di fondo, difficilmente potrà nascere una vera sensibilità ecclesiale, in altre parole se non moriamo al nostro individualismo, quello che abbiamo assorbito insieme al latte materno e portato in seminario con la nostra vocazione, lo spirito di comunione sarà come una toppa nuova su un vestito vecchio, una sovrastruttura che giunge dall’esterno, ma non produce un cambiamento profondo della mentalità e non è quindi capace di resistere nella prova della vita quotidiana.
Eppure se non appartenessi alla Chiesa il mio stesso sacerdozio non avrebbe senso, non potrei neppure celebrare l’Eucaristia senza essere in comunione con il mio vescovo, perché i sacramenti sono un dono che Dio ha dato al suo popolo, non a me! Per questo la Chiesa mi chiede di partecipare ogni giorno all’immenso coro della lode, per questo mi vincola alla liturgia delle ore con una promessa solenne, per questo, conoscendo la mia fragilità, accetto volentieri quel vincolo, perché a dispetto della povertà del mio cuore è a questa Chiesa che voglio appartenere. Per questo nel mio esame di coscienza la prima cosa che verifico è la mia fedeltà al Breviario, perché so che è la prima cosa che cade se io stesso non sono in Grazia. Per questo credo che sia importantissimo, per quanto possibile, celebrare la Liturgia delle Ore in forma comunitaria, con il popolo o almeno nella piccola comunità del clero parrocchiale. Innanzitutto l’obbligo di essere presente all’appuntamento comune riprende il vincolo di quella promessa e poi appunto sottolinea la natura comunitaria di questa preghiera.
Oltre all’individualismo credo che un’altra radice della difficoltà a recitare il Breviario abbia la sua radice profonda nell’aver trasformato la preghiera delle ore in una preghiera privata. Va da sé infatti che se è una cosa individuale e personale posso gestirmela liberamente nei tempi e nei modi, organizzandola come più mi aggrada e non di rado lasciandola all’ultimo posto nella scala di priorità; rapidamente poi non si capisce più perché, se è una preghiera privata, non posso sostituirla con altre forme di preghiera e alla fine viene meno la ragione stessa del pregare. Ricordo la sorpresa di un amico prete che quando gli proposi di recitare insieme l’Ora Media mi rispose: “che nostalgia l’Ora Media, mi ricorda i tempi del Seminario!”, così molti, tra cui a volte anche io, si riducono a celebrare le Ore lontanissime da quello che dovrebbe essere il loro tempo canonico e ad accorparle, magari tutte insieme, a fine giornata. Soddisfacendo così forse la lettera del precetto, ma tradendone del tutto lo Spirito, che è quello della santificazione del tempo. Per questa ragione non amo i molti sussidi che ci sono in commercio per “aiutare” la preghiera delle Ore (nuove traduzioni dei Salmi, testi alternativi per le letture dell’Ufficio, orazioni salmiche eccetera), mi sembrano tutti personalismi che di fatto distolgono dalla natura ecclesiale della Liturgia.
A questo punto la domanda diventa: come può un prete diocesano, che il più delle volte, soprattutto in una grande città, è solo come un anacoreta, celebrare la Liturgia delle Ore in forma comunitaria?
Celebrarla insieme al Popolo di Dio può essere di grande aiuto. Noto che la mia gente, una volta che ha afferrato il meccanismo non semplicissimo del Breviario, ama molto pregare con i Salmi. Nella nostra Parrocchia Lodi e Vespri vengono regolarmente celebrati con il Popolo e c’è sempre una partecipazione discreta, paragonabile a quella della S. Messa feriale. Per me presbitero comporta il dovere di presiedere la preghiera comune, e questo mi richiama con forza alla mia fedeltà restituendo al “coro” il suo carattere di obbligo, anzi di dovere primario, secondo l’adagio di S. Benedetto: “nulla anteporre all’opera di Dio”. Il dovere della preghiera comune mi ha abituato così ad organizzare la mia agenda in funzione della preghiera e non viceversa e mi ha restituito il gusto di passare molto tempo in chiesa. L’immagine del prete seduto tra i banchi a pregare il Breviario non è un’immagine di altri tempi, è ancora ben presente nell’immaginario del popolo di Dio, che giustamente è così che vorrebbe vederci. Se non siamo capaci noi per primi di vivere concretamente il primato di Dio nella nostra vita, come possiamo pretendere di insegnarlo alla nostra gente? Proprio i laici, del resto, colgono molto rapidamente e in maniera istintiva il valore ecclesiale della partecipazione alle “Ore”. Ricordo che i primi passi della fede li ho compiuti in una piccola comunità scolastica che si identificava innanzitutto dal fatto che ci incontravamo per recitare le Lodi ogni mattina prima dell’inizio delle lezioni. In molti movimenti ecclesiali d’altronde, da Comunione e Liberazione al Cammino Neocatecumenale, la pratica della Liturgia delle Ore è un elemento essenziale della spiritualità.
Oltre al gruppo semantico di termini che fa riferimento alla comunione, spesso la liturgia delle ore è definita anche da termini che fanno riferimento al servizio, la stessa parola officium significa innanzitutto servizio, e anche questa è una considerazione che spesso mi aiuta nella celebrazione: io non prego per me stesso, ma nel farlo servo Dio e la Chiesa, anzi questo è il solo servizio che mi è chiesto direttamente ed esplicitamente e significa quindi che è il più importante, quello che non deve mai mancare.
Se la Liturgia delle ore è per definizione l’opus Dei significa che la Chiesa è innanzitutto questo: una comunità di lode. Tutto nella Chiesa è a servizio della lode, tutto quindi deve essere organizzato in funzione di essa, deve prendere dalla lode la sua origine ed avere nella lode il suo orizzonte. La pratica della Liturgia delle Ore ci restituisce un’immagine autentica di Chiesa, ci libera dalla tentazione di pensare la Chiesa come un’agenzia di servizi e soprattutto preserva in noi l’anima dell’apostolato. È grazie alla fedeltà al Breviario che il mio ministero è liberato dalla tentazione dell’efficientismo, e d’altra parte ricordare che nulla va anteposto all’Opera di Dio mi restituisce una giusta scala di priorità, relativizzando in maniera salutare il mio lavoro e ricordandomi continuamente che sono un servo e di chi. È in fondo un atto di umiltà: mi serve a ricordare che non sono necessario. Potrei fare mille cose per i poveri, ma se lo faccio senza Carità non serve a niente, e la Liturgia delle Ore mi ricorda costantemente questo, come un vincolo nella mia stessa carne, che mi riconduce sempre alla fonte dell’Amore da cui rischio di distrarmi.
Ma c’è anche un altro punto di vista di cui devo tenere conto e rileggendo quanto ho scritto fin qui mi accorgo che non è venuto del tutto in luce, anzi non riesco a sottrarmi alla sensazione di un approccio sostanzialmente moralista, basato cioè sul dovere e sulla volontà più che sulla Grazia.
Credo che una certa tensione tra la Liturgia delle Ore e i ritmi della vita quotidiana per un prete diocesano sia strutturale e inevitabile, perché ha a che fare proprio con la sua natura di preghiera di santificazione del tempo. In un’abbazia si vive nel “tempo di Dio” e tutto è organizzato in funzione di esso, così che in maniera naturale il ritmo della giornata è scandito dagli obblighi del coro, tanto che a volte si ha la sensazione che le abbazie abbiano un altro fuso orario rispetto al mondo che gira loro intorno. La nostra vita invece è diversa, noi dobbiamo per necessità vivere nel tempo del mondo, se non altro perché dobbiamo essere sempre sincronizzati con il tempo delle persone a cui siamo inviati. Un esempio semplice può aiutare a capire: nel ritmo di vita di una Parrocchia solitamente le ore del mattino sono più tranquille, perché è naturale che le attività pastorali si concentrino nel pomeriggio, quando i ragazzi sono liberi dagli impegni scolastici e gli adulti da quelli lavorativi, così accade che mentre il tempo al mattino scorre di solito in maniera più regolare e dilatata, nel pomeriggio e nella sera diventi frenetico e sconnesso, costringendoci a saltare da un impegno all’altro, senza che questi abbiano alcuna relazione tra loro e spesso proiettandoci in situazioni emotive diversissime. Diventa allora molto difficile inserire una preghiera regolare in una agenda che non è dettata da noi, ma dalla necessità.
Istintivamente questo mi infastidisce molto: a seconda delle oscillazioni del pendolo della mia anima tra spirituale e pragmatico ho la sensazione che la preghiera mi distolga dalle attività o viceversa. Eppure proprio questo fastidio è una Grazia e dovrei accoglierlo come tale! Se infatti questa tensione è strutturale, cioè inevitabile, allora vuol dire che qui, in questa fatica, si rivela un aspetto essenziale del ministero sacerdotale, qualcosa che anziché sentire come un fastidio dovrei riuscire a vedere come un dono e una sfida, certamente impegnativa, ma ricca di bene.
Un prete secolare è un ossimoro vivente: vincolato dalle sue promesse sacerdotali ad una vita modellata su quella dei religiosi, deve al tempo stesso essere “secolare”, cioè uomo del mondo pienamente inserito nelle sue dinamiche. Proprio questo carattere anfibio della nostra vocazione è la causa maggiore della difficoltà a vivere una forma di preghiera che, nella sua teologia e nella sua spiritualità, è strettamente legata alla vita dei religiosi. Ma d’altra parte quanto è feconda questa tensione!
È nella nostra natura di ponti viventi, gettati tra due mondi e due tempi, il sentire questa fatica e però al tempo stesso se rinunciamo a viverla, se non ce ne facciamo carico noi per primi, come potrà il tempo di Dio irrompere nel tempo dell’uomo? Come si può avere l’anima di un monaco e vivere nei ritmi di una grande città? Un caro amico una volta mi ha definito un trappista urbano, sospetto che nella sua mente questo non fosse un gran complimento, ma invece io l’ho ricevuto come tale, se non altro perché raccoglie appunto questa tensione che costantemente sento in me.
La pratica della Liturgia delle Ore, anche nel suo carattere di obbligo, da questo punto di vista è molto benefica, perché è come una finestra che periodicamente si apre riconducendomi a Dio. È il mio Sabato quotidiano, un santuario da costruire a Dio nel tempo anziché nello spazio. È facile comprendere come si deve offrire a Dio lo spazio: tutta la cultura occidentale ed europea gira intorno a questo, ma il Dio che ha creato il cosmo ha creato anche il tempo e deve poter esprimere la sua Signoria in questo non meno che in quello: dedicare ogni nostra energia alla santificazione dello spazio, costruendo meravigliose parrocchie, brillanti di iniziative ed azione, e dimenticare di edificare a Lui un santuario nel tempo significa nei fatti rassegnarsi ad una pastorale di una superficialità allarmante, perché le persone vivono molto più nel tempo che nello spazio e se non le raggiungiamo nel tempo, se non costruiamo nel tempo la casa di Dio, non le avremo toccate davvero nel profondo dell’anima. Insomma, la Liturgia delle Ore mi ricorda costantemente che se sono prete non è per prendermi cura delle strutture, ma delle persone. Da mihi animas, coetera tolle, il motto sacerdotale di don Bosco, è perfettamente incarnato nel primato della Liturgia delle Ore su tutti gli altri impegni della giornata.