In Langa, le chiamavano le «suore del vino bianco». Il loro vino per la messa era conosciuto in tutta la zona. Ora questo vino tornerà nel Monastero del moscato. Si riapre l’antica cantina. Per 106 anni, nel loro monastero-cantina di Santo Stefano Belbo, tra le colline che hanno dato i natali a Cesare Pavese, hanno prodotto un moscato speciale, richiesto dalle parrocchie di tutta Italia, Vaticano compreso, per officiare il servizio liturgico.
Avevano due etichette, «Clemen’s» e «Rosaly’s», che prendevano il nome dai due fondatori della loro congregazione, le Figlie di San Giuseppe.
Il sacerdote Clemente Marchisio, proclamato beato, e suor Rosalia Sismonda. Fu proprio don Marchiso a coltivare la vocazione del vino da messa, dopo un colloquio a Roma con Papa Leone XIII. Da allora, le suorine del vino bianco hanno portato avanti per oltre un secolo l’attività vinicola con una dedizione e una professionalità pari solo alla loro fede.
La regola era una sola: «Vinum debet esse naturale de gemine vite et non corruptum». Così recita il canone 924 del codice di Diritto Canonico che fissa le regole per la produzione del vino da messa, uno dei simboli più affascinanti e complessi di tutta la celebrazione eucaristica. A guidare il processo era la Madre Superiora, coadiuvata dalle consorelle e da un enologo che consigliava quali uve comprare sui mercati e quali accorgimenti tecnici usare. Le suore cantiniere trascorrevano le loro giornate tra preghiere e processi enologici, seguendo il lavoro dalla pigiatura all’imbottigliamento sotto un grande crocifisso che emergeva tra le botti.
Poi la crisi delle «chiamate» ha colpito anche la comunità di Santo Stefano Belbo. Negli ultimi anni erano rimaste solo in due, suor Annarita e suor Maria Rosa, e la decisione è stata presa a malincuore: smaltite le scorte della vendemmia 2010, quattro anni fa le Figlie di San Giuseppe avevano definitivamente lasciato in cantina un tesoretto tirato a lucido e in perfetto stato di conservazione fatto di pigiatrici e presse automatiche, vasche in acciaio, filtri, pompe e linee di imbottigliamento. Una struttura moderna e funzionale, che vendemmia dopo vendemmia ha atteso qualcuno in grado di raccogliere, se non la vocazione delle suore, almeno il loro sapere enologico.
Ora quel qualcuno è finalmente arrivato. E neppure da lontano. Anzi, da molto vicino: la famiglia Marino, santostefanese da sempre e proprietaria della cantina Beppe Marino, ha deciso di trasferire la sua produzione nello storico monastero e continuare ideologicamente quell’attività di passione, amore e attenzione al territorio che le consorelle avevano portato avanti per più di un secolo. Le porte del complesso riapriranno in anteprima per «Cantine Aperte», l’evento promosso dal Movimento Turismo Vino il 28 e 29 maggio.
«Il monastero – dice Maurizio Marino – era un luogo di grande importanza sociale e culturale, nonché un centro di aggregazione per la gioventù locale. La sfida è impegnativa, riprodurre quel vino sarà per me un onore, certo sentirò anche l’opinione del vescovo, noi siamo davvero onorati di avere la possibilità di rimettere in funzione una struttura che è così fortemente legata alle tradizioni e alla storia del nostro piccolo paese».