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Corea del Sud tra religione e tensione

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Vatican Insider - pubblicato il 14/05/16
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Se l’incontro tra le religioni è garanzia di pace, dalla Corea del Sud arriva un modello virtuoso. Lì la Chiesa, arrivata duecento anni fa, è una presenza significativa nel tessuto sociale: la stessa percentuale (il 10%) di cattolici è tra le più alte del continente asiatico, fatta eccezione per le Filippine e Timor Est. Gli 11 missionari della Consolata da alcuni anni hanno dedicato un progetto specifico al dialogo interreligioso. La Corea è un grande «supermercato delle religioni» con un foltissimo gruppo di esperienze autoctone, mentre le grandi religioni sono state introdotte dall’esterno: il buddismo nel III/IV secolo dopo Cristo, il confucianesimo nell’undicesimo secolo e, duecento anni fa, il cristianesimo. «La Chiesa ha molti sacerdoti ed è vista con favore dalla gente» commenta padre Diego Cazzolato che, dal 1988, vive a Daejeon.  

Esemplare la testimonianza del cardinale Stephen Kim Sou-Hwan (1922 – 2009) che ha difeso con coraggio i contadini, i pescatori, i cittadini delle campagne e i più deboli: solo così, infatti, si può comprendere perché è cresciuta «l’autorevolezza e l’attrattiva della Chiesa». Qualcosa, però, è cambiato. «La Chiesa, oggi, ha lasciato perdere lo spirito critico. I nostri Vescovi non riescono a dire una parola chiara sulla situazione economico-sociale», sempre tenendo conto che parliamo di un gigante economico. L’esperienza del confucianesimo ha dato una «struttura etica al popolo coreano: il senso di responsabilità e il senso del dovere. L’ideale dell’impegno personale come via per continuare a migliorarsi ha contribuito a formare l’ossatura del boom economico dopo la distruzione della guerra». Il punto debole, «è che sono convinti che l’uomo, se si sforza, può superare da solo il male e il peccato».  

«Quando siamo arrivati nel 1988 – continua padre Cazzolato – abbiamo avuto un piccolo choc rispetto a quello che ci aspettavamo, perché non c’era alcuna emergenza sociale: il governo e le religioni avevano costruito molte strutture per bambini e anziani. Abbiamo così scelto come Congregazione di fare qualcosa per i più poveri, creando delle comunità di inserimento per le periferie dove si sistemava chi si spostava dalla campagna». E così i Missionari della Consolata si sono attivati per l’educazione e l’assistenza. «Abbiamo cercato di stare con loro più che organizzare iniziative strutturate. Oggi, invece, le sacche visibili di povertà sono sparite: i poveri vivono nascosti nei sottoscala, lontano dagli occhi e sono più difficili da trovare; negli ultimi 15 anni si identificano principalmente con gli immigrati stranieri che provengono dalle Filippine, dalla Mongolia, dal Bangladesh, dal Vietnam e dall’Africa». All’inizio la Chiesa ha fatto fatica «a rendersi conto della loro presenza», oggi tutte le diocesi lavorano molto nel campo dell’assistenza sociale con gli immigrati. Nello specifico, la Consolata segue quindi altri due progetti: l’assistenza agli stranieri e l’educazione missionaria ai fedeli coreani. In questi anni, ho appreso «molte cose. La prima che il cuore umano è uguale dappertutto: risponde all’amore e si chiude davanti all’odio. Ho imparato che Gesù ha un senso per questo popolo e per questa cultura; ho imparato ad adattarmi alle piccole storie e alle situazioni, cercando di offrire una testimonianza di aiuto e di vicinanza alle persone». 

Sullo sfondo la continua tensione con la Corea del Nord, perché dal 1953, cioè dalla fine della guerra, il cessate il fuoco non è mai diventato un trattato di pace. «Tecnicamente siamo ancora in guerra con la tensione alle stelle in seguito allo sviluppo delle armi atomiche da parte della Corea del Nord. La popolazione ha fatto, come si dice in questi casi, il callo. Quando le televisioni di mezzo mondo erano convinte dello scoppio della guerra, qui le famiglie portavano tranquillamente i figli a scuola». Resta il problema delle famiglie (500mila persone) che sono ancora divise e separate: «Non ci sono comunicazioni tra Nord e Sud. Nonostante le sanzioni dell’Onu, il Nord sopravvive grazie alla Cina che, in pratica, ne detiene le risorse naturali. Se la Cina dicesse basta, anche il Nord ascolterebbe di più la comunità internazionale». Nel frattempo, la Chiesa della Corea del Sud ha chiesto il permesso di mandare dei preti al Nord, almeno a Pasqua, ma non gli è mai stato concesso. Chi scappa dal regime dittatoriale di Pyongyang viene fucilato o finisce nei campi di lavoro; chi riesce arriva in Cina via fiume e poi, grazie ad alcune associazioni umanitarie, si ricongiunge, finalmente, con i propri cari. 

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