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Il costo umano della moda: quanto siamo responsabili dello sfruttamento?

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Pauli Kuitunen / Union to Union-cc

Alvaro Real - pubblicato il 05/05/16

Le 9 domande che tutti dobbiamo porci prima di acquistare vestiti

Il 24 aprile 2013 sono morti ben 1135 lavoratori e altre 2500 persone sono rimaste ferite nel crollo della “Rana Plaza” (un edificio destinato a officine che ospitava gli uffici e laboratori tessili). Giorni prima gli operai avevano sentito qualcosa di simile ad un’esplosione, ma i proprietari delle fabbriche hanno fatto pressione per farli continuare a lavorare.

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La notizia è rimbalzata tra i media internazionali e presto sono iniziate a comparire i nomi di molte multinazionali coinvolte nella tragedia di Rana Plaza. Di chi è stata la colpa di questa tragedia? Dei proprietari di una fabbrica locale in outsourcing? Della legislazione del paese? Delle multinazionali che trasferiscono le loro attività? Seguendo il filo della catena di distribuzione… sono forse i consumatori i responsabili di questa tragedia?

La tragedia di “Rana Plaza” ha mostrato la realtà dei lavoratori tessili in Bangladesh, in Cambogia, nelle Filippine, in Thailandia… Quel giorno ha dimostrato che dietro molti dei prodotti e degli articoli che consumiamo liberamente e allegramente ci sono situazioni di semi-schiavitù e di violazioni dei diritti umani. Questo problema persiste? Oppure è cambiato qualcosa nel settore tessile?

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A prima vista non è cambiato nulla. L’industria tessile prosegue con lo stesso sistema di produzione, cioè con prodotti realizzati in luoghi dove la manodopera è economica, con prodotti “low cost”. A questo si aggiungono le campagne pubblicitarie che spingono a cambiare vestiti in ogni stagione, se non si vuole andare fuori moda, a prezzi molto economici. Passati due anni, l’utente finale torna a usare gli stessi vestiti e le stesse scarpe. Prima c’era forse qualche scusa, ma ora non si può parlare di ignoranza… Siamo responsabili di questa tragedia?

Il modello di produzione: il subappalto, la delocalizzazione, la riduzione dei costi

Le grandi multinazionali hanno messo gli occhi sul mercato asiatico per puri interessi mercantili. Non lasciamoci ingannare… non pretendono di aiutare un paese sottosviluppato né si tratta di ong che vogliono offrire occupazione ai bisognosi. Vanno in India, in Bangladesh, in Cambogia e in Marocco perché i salari sono più economici, i sindacati non fanno pressione e i governi sono molto più permissivi nelle loro legislazioni. Il subappalto a sua volta permette di ottenere il prodotto ad un profitto più elevato. È la legge di riduzione dei costi portata all’estremo. Cesar Laborda, dirigente di Iberasia, lo ha spiegato in un reportage trasmesso dalla televisione spagnola La Sexta:

Non si può competere nel settore tessile se non producendo in Asia e nei paesi del Terzo Mondo. “Preferirei produrre in Spagna, ma le cose stanno così… non c’è molto da ragionarci su”, ha detto Cesar Laborda.

Le aziende tessili sanno come sono le fabbriche dove vengono realizzati i propri prodotti? Conoscono come funzionano queste fabbriche? Le grandi multinazionali controllano il rispetto dei diritti dei loro lavoratori? Fanno finta di niente? Guardano dall’altra parte?

Chi controlla lo sfruttamento in una società senza diritti?

Le aziende tessili sono state coinvolte, nei tre anni successivi al crollo di Rana Plaza, in continue campagne di informazione sul loro sistema di produzione. La Inditex, una delle più grandi aziende del mondo tessile, è stato citata più volte in rapporti che denunciano l’uso di adolescenti e lo sfruttamento dei lavoratori, senza un contratto, privati della libertà e in condizioni insalubre. “Inditex allo scoperto”, un programma condotto dal canale francese “France2”, ha messo l’accento sulla responsabilità delle grandi multinazionali in questi aspetti.

Il reportage evidenzia dal 2009 relazioni e documenti che mostrano le condizioni di lavoro deplorevoli di alcuni subappaltatori. Immagini di laboratori con impianti elettrici discutibili, pericolosi, e poco igienici. Ci sono prove che dimostrano che Inditex porta avanti queste pratiche. Eppure continua ancora a produrre in questi paesi… tutte le multinazionali dei vestiti lo fanno. È il prezzo per mantenere la produttività, per rimanere i numero uno nel settore.

Tuttavia le aziende hanno iniziato a darsi da fare e cercare di controllare in qualche modo la propria catena di fornitura. Non è facile. Inditex ha ora un accordo quadro globale per tentare di difendere i diritti dei propri lavoratori. Alcuni sindacati spagnoli (CCOO) hanno anche condotto delle visite nelle fabbriche e realizzato rapporti.

Si denuncia e si cerca di sradicare la pratica del Sumangali, un tipo di sfruttamento e di schiavitù realizzato in India nei confronti di bambine, adolescenti e giovani donne. Viene offerta la promessa di una “dote” accumulata tramite gli sconti dei loro miseri salari, dopo aver portato a termine un abusivo contratto di “apprendistato” della durata di tre anni… Un tipo di schiavitù che si poggia sulla loro vulnerabilità e sul tentativo di fuggire dalla miseria in cui vivono. Un progetto ambizioso per cercare di alleviare lo sfruttamento, la schiavitù, il lavoro minorile… è da solo sufficiente?

Gap, Primark, C & A, Tchibo, Hugo Boss, Ermenegildo Zegna, Benetton, Avanti, Armani, Louis Vuitton, Prada, Mizuno, Arcadia, Cotton Group, Adidas, Esprit, New Look, Abercrombie, Antigua, Nike, Puma, The North Face, Li-Ning, Reebok, Marks & Spencier, Mango, El Corte Ingles, Cortefiel, Mayoral, Punto Roma… fabbricano tutti in questi paesi. Forse ogni impresa controlla la produzione? Conoscono o possono conoscere lo stato dei loro lavoratori? La delocalizzazione e il subappalto li sollevano da ogni responsabilità?

Quale grado di colpa è dell’acquirente, del consumatore finale?

Ogni paese è diverso sebbene la globalizzazione rende più o meno simili gusti, spese e consumi. In Spagna la spesa media sui vestiti è di 437 euro all’anno. Una spesa che di solito è fatta quasi al 100% nelle grandi multinazionali e imprese tessili, nei grandi magazzini … sappiamo da dove provengono i vestiti che acquistiamo? Ci interessa oppure vogliamo semplicemente il prodotto migliore? Prestiamo attenzione allo sfruttamento e alla schiavitù oppure notiamo solo le tre B (Buono, Ben fatto, Buon mercato)? Temo la risposta sia la seconda.

La Setem (ong specializzata nella sensibilizzazione per ottenere un mondo migliore) fornisce una guida pratica per vestire senza il lavoro degli schiavi. Vengono affrontati tutti i problemi dell’industria tessile, dai costi allo sfruttamento… ma vengono anche fornite raccomandazioni per il consumatore. Il consumatore è l’ultimo anello della catena e ha molto più potere di quanto si pensi. Per iniziare può pensare a quando, a come e al perché si sta comprando qualcosa.

È necessario rinnovare ogni tanto l’armadio? Poniamoci dunque le seguenti nove domande, prima di acquistare vestiti nuovi.

Le raccomandazioni della Setem prima di fare acquisti:

1). Ho bisogno di quello che sto per comprare?

2). Voglio soddisfare un desiderio?

3). Sto scegliendo liberamente o è un shopping compulsivo?

4). Possiedo altri prodotti identici a casa?

5). Quando lo userò? Con quale frequenza?

6). Quanto mi durerà?

7). Potrei chiedere a un amico o a un familiare di darmi un prodotto uguale?

8). Posso farne a meno?

9). Mi sono informato su chi ha fatto il prodotto e sulle condizioni nelle quali lo ha realizzato?

Semplici domande che i consumatori possono porsi per cercare di fare la loro parte per alleviare lo sfruttamento, la precarietà e la schiavitù nel settore tessile. Solo creando consapevolezza in questo problema potremmo cambiare alcune cose. Acquistare questi prodotti forse non ci rendono complici della situazione, ma ci fanno cadere nell’indifferenza per i problemi degli altri, in questo caso di uomini, donne e bambini che vivono sfruttati da un sistema pernicioso, di cui le multinazionali sono solo la punta dell’iceberg, il suo massimo esponente.

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Valerio Evangelista]

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