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Ludwig Wittgenstein era cristiano, è stato strumentalizzato dal positivismo

Ludwig Wittgenstein

Unione Cristiani Cattolici Razionali - pubblicato il 04/05/16

Pochi giorni fa è stato ricordato l’anniversario di morte del filosofo britannico Ludwig Wittgenstein, considerato non a torto dall’Enciclopedia Britannica il più grande filosofo del XX secolo. Si fa spesso riferimento al suo pensiero filosofico e alle sue opere, che effettivamente hanno inciso in maniera determinante sulla letteratura e sulla tradizione analitica, su tutte il celebre Tractatus logico-philosophicus (1921).

Figlio di padre protestante e madre cattolica, battezzato come cattolico, fu lui a influenzare più di tutti i neopositivisti viennesi con la sua demarcazione tra ciò di cui si può parlare in quanto sensato, come gli oggetti della scienza, e ciò di cui si deve tacere, come i principi della metafisica, convinzione sintetizzata nella celebre frase: «su ciò di cui non si può parlare, se deve tacere» (L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi 1995, p. 109). Viene sbrigativamente etichettato come “agnostico”, eppure non è affatto ciò che dicono i suoi testi, i suoi amici e i suoi biografi.

Innanzitutto occorre dire che è vero, Rudolf Carnap ammise che il suo impegno antimetafisico sulla non verificabilità delle asserzioni metafisiche emerse dalla lettura di Wittgenstein tuttavia, negli ultimi anni della sua vita, lo stesso Carnap si accorse che la confutazione di molti al positivismo era effettivamente letale: i loro stessi enunciati non sono verificabili per via empirica e spesso sono tautologici, esattamente le critiche da loro rivolte ai metafisici e ai teologi. «Sfortunatamente», disse Carnap, «seguendo Wittgenstein, formulammo il nostro punto di vista al Circolo di Vienna in modo troppo semplificato, dicendo che certe tesi metafisiche sono prive di significato» (citato in P.A. Schlipp. La filosofia di Rudolf Carnap, Il Saggiatore 1974, pp. 45,46). Non sappiamo se Carnap si accorse mai fino in fondo della falsità nel concedere solo alle asserzioni delle scienze empiriche un valore cognitivo, mentre, al contrario, «possono a loro volta dirsi cognitive anche le proposizioni metafisiche, qualora procedano da elementi empirici o scientifici e risultino razionalmente criticabili» (R. Timossi,Nel segno del nulla, Lindau 2015, p. 291).

Wittgenstein sbagliava su questo, della metafisica si può parlare come hanno dimostrato diversi esponenti proprio della filosofia analitica. sostenitori della teologia razionale, come John Niemeyer Findlay e John Wisdom. Il paradosso è che, proprio questi filosofi analitici -lo ha fatto notare il filosofo Roberto Timossi-, «si sono inspirati a Wittgenstein e da un punto di vista strettamente logico-linguistico hanno preso molto sul serio le dimostrazioni dell’esistenza di Dio, specie di quella logica per eccellenza: l’argomento ontologico» (R. Timossi, Nel segno del nulla, Lindau 2015, p. 286).

Il pensiero di Wittgenstein è comunque stato un po’ troppo estrapolato e strumentalizzato dal neopositivismo in chiave antimetafisica. Egli non sosteneva l’irrazionalità della metafisica in quanto non indagabile dal metodo empirico, ma riconosceva che l’insopprimibile richiesta di senso e di significato che trovava dentro di sé, implicita in ogni accadimento umano, non si poteva giustificare in base all’esperienza empirica. Non perché fosse “fantasiosa”, ma perché al di là dei poteri della ragione. «Il senso del mondo dev’essere fuori di esso», scrisse infatti. «Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v’è in esso alcun valore -né, se vi fosse, avrebbe un valore. Se un valore che ha valore v’è, dev’essere fuori d’ogni avvenire ed essere-così. Infatti ogni avvenire ed essere-così è accidentale. Ciò che li rende non-accidentali non può essere nel mondo, ché altrimenti sarebbe, a sua volta, accidentale. Dev’essere fuori del mondo» (L. Wittgenstein, Quaderni 1914-1916, Einaudi 1964, prop. 6,41,79). E lo stesso concetto lo ribadì una seconda volta: «Credere in un Dio vuol dire comprendere la questione del senso della vita. Credere in un Dio vuol dire vedere che i fatti del mondo non sono poi tutto. Credere in Dio vuol dire vedere che la vita ha un senso» (L. Wittgenstein,Quaderni 1914-1916, Einaudi 1964, prop. 6,41,174).

Addirittura, il suo amico psichiatra Maurice O’Connor Drury, ha riferito: «Per un certo periodo Wittgenstein iniziava la giornata ripetendo unapreghiera al Signore. Una volta mi disse: “E’ la più straordinaria preghiera mai scritta. Nessuno ha mai composto una preghiera del genere, ricordati che la religione cristiana non consiste nel dire un sacco di preghiere, anzi, ci è stato comandato esattamente l’opposto. Se io e te viviamo una vita religiosa non parleremo molto di religione, ma in qualche modo sarà la nostra stessa vita ad essere diversa» (citato in R. Rhees, Ludwig Wittgenstein: Personal Recollections, Rowman & Littlefield 1981, p. 109). Se qualche positivista probabilmente strizzerà gli occhi incredulo, sappia che diverse preghiere sono state trovate nei diari di Wittgenstein quando si arruolò come volontario durante la prima guerra mondiale: «Come mi comporterò quando si tratterà di sparare?», scrisse, ad esempio. «Non ho paura di essere colpito, ma di non fare il mio dovere in modo corretto.Dio, dammi la forza! Amen!». Oppure: «Se tutto ciò finisce con me, ora, io muoio di una buona morte, memore di me stesso. Non potrò mai perdere me stesso! Posso avere la possibilità di essere un essere umano decente perché mi trovo faccia a faccia con la morte. Possa lo spirito illuminarmi». Ed infine: «E’ mia convinzione che solo se si tenta di essere utile agli altri, alla fine, si troverà la strada verso Dio» (preghiere citate in N. Malcolm, Wittgenstein: A Religious Point of View?, Routledge 1993, pp. 8-9, 20).

Il suo biografo più prolifico, nonché collega e amico personale, Norman Malcolm, ha scritto: «La vita matura di Wittgenstein è stata fortemente segnata dal pensiero e dal sentimento religioso. Sono propenso a pensare che lui era più profondamente religioso di tante persone che si considerano credenti» (N. Malcolm, Wittgenstein: A Religious Point of View?, Routledge 1993, pp. 21-22). Dopo una fase di agnosticismo, in cui ammise di non avere fede, potremmo tranquillamente dire che recuperò attivamente il suo cristianesimo. A dirlo è un altro suo stretto amicoPaul Engelmann (e con lui molti altri), il quale parla esplicitamente di un Wittgenstein religioso e cristiano, un credente nel quale viveva una «fede non espressa in parole» (citato in I. Roncaglia, Lettere di Ludwig Wittgenstein con Ricordi di Paul Engelmann, La Nuova Italia 1970, p. 107). Su questo ha riflettuto molto anche Rocco Pititto, filosofo dell’Università Federico II di Napoli, nel suo trattato “La fede come passione. Ludwig Wittgenstein e la religione” (San Paolo Edizioni 1997): «negli ultimi anni della sua vita», scrive Pititto, «il confronto con il mistero cristiano fu a tutto campo: l’interrogativo religioso divenne più radicale e più pressante, fino a investire problemi e aspetti decisivi del cristianesimo, come l’esistenza di Dio, l’idea del bene, il peccato, il problema del male, la predestinazione, il giudizio finale, il miracolo, la storicità dei Vangeli, l’Eucarestia, la resurrezione di Cristo, la vita futura» (p. 27). E’ noto, d’altra parte, il grande interesse per i Vangeli, sui quali ci lasciò interessanti riflessioni sulle differenze tra i sinottici, che amava molto (quello di Matteo, in particolare, perché «mi sembra contenere tutto», disse all’amico Maurice Drury), e le lettere paoline, che apprezzava meno. Salvo poi, fare marcia indietro: «Un tempo pensavo che le epistole di San Paolo erano una religione diversa da quella dei Vangeli. Ma ora vedo chiaramente che mi sbagliavo. Si tratta della stessa visione, sia nei Vangeli che nelle Epistole» (citato in, R. Rhees, Ludwig Wittgenstein: Personal Recollections, Rowman & Littlefield 1981, pp. 177,178).

Ma è nella serie di inedite annotazioni che compongono il libro Pensieri diversi (Adelphi 1980) che si percepisce il ritorno del filosofo austriaco alla fede cattolica della gioventù, abbracciata questa volta con più maturità e consapevolezza. «É assai significativo, a questo riguardo, un testo wittgensteiniano del 1937, in cui il filosofo si interroga sulla resurrezione di Gesù Cristo, verità nella quale riconosce, sorprendentemente, di credere», scrive Pititto (p. 148). Quell’anno segna per lui una tappa fondamentale nella maturazione della problematica religiosa, anche grazie agli amici cattolici Yorick Smythies e, in particolare, Elizabeth Anscombe. L’adesione al cristianesimo è esplicita e chiara, «la fede nella resurrezione fa parte allora della professione religiosa del filosofo, tanto da coinvolgerlo esistenzialmente: Wittgenstein, in definitiva, recupera una sua identità, perché crede nella resurrezione di Cristo» (R. Pititto, La fede come passione. Ludwig Wittgenstein e la religione”, San Paolo Edizioni 1997, p. 149). Il cristianesimo, dice Wittgenstein citato dal suo amico Malcolm, è «per chi si sente un bisogno infinito. Per come la vedo io, la fede cristiana è il rifugio di questa angoscia presente in una sola anima, che l’intero pianeta non riuscirebbe a contenere. A chi è dato di aprire il suo cuore a questa afflizione, invece di sopprimerla, accetterà la salvezza nel suo cuore». Perché, «il cristianesimo non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è accaduto e accadrà all’anima umana, ma una descrizione di un effettivo verificarsi nella vita umana. La “coscienza del peccato” è un evento vero e proprio, e così lo sono la disperazione e la salvezza mediante la fede». E, attenzione, «la fede religiosa e la superstizione sono completamente diverse. Una scaturisce dalla paura ed è una sorta di falsa scienza. L’altra è un confidare» (citato in N. Malcolm, Wittgenstein: A Religious Point of View?, Routledge 1993, pp. 17,18).

Il suo esecutore letterario, cioè colui al quale Wittgenstein lasciò la proprietà intellettuale delle opere pubblicate, il filosofo Rush Rhees, ha riportato che due anni prima di morire, nel 1949, Wittgenstein disse all’amico Drury: «Ho ricevuto una lettera da un vecchio amico australiano, un prete. Mi scrive che spera che il mio lavoro andrà bene, se questa deve essere la volontà di Dio. Ora, questo è tutto ciò che voglio: se deve essere la volontà di Dio. Bach ha scritto sul frontespizio del suo Orgelbuechlein: “Per la gloria del Dio altissimo, e che il mio vicino di casa possa beneficiarne”. Ecco, questo è quello che avrei voluto dire anche io sul mio lavoro» (citato in R. Rhees, Ludwig Wittgenstein: Personal Recollections, Rowman & Littlefield 1981, pp. 181,182). Negli ultimi mesi della sua vita vorrà incontrare a tutti i costi padre Conrad, il domenicano che aveva guidato la conversione al cattolicesimo del suo amico filosofo Smythies. Fu sepolto con una cerimonia di rito cattolico, quasi certamente per sua volontà, nel cimitero annesso alla Chiesa di St. Giles a Cambridge.

Abbiamo raccontato Wittgenstein come non compare nei libri di scuola o nei manuali di neopositivismo, ma era giusto farlo ricordando e celebrando il suo anniversario di morte.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE

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